Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario

Con il referendum del 23 giugno 2016, il Regno Unito si è espresso favorevolmente alla propria definitiva uscita dall’Unione Europea. Ma quali saranno le conseguenze fiscali di una scelta simile, soprattutto in ambito internazionale?

Innanzitutto, è facile immaginare che, alla luce del risultato referendario, una serie di agevolazioni e semplificazioni, di cui godono i Paesi aderenti alla UE, decadranno automaticamente o, quantomeno, dovranno essere gestite in modo parallelo, come già avviene per i Paesi non UE aderenti allo Spazio economico europeo.

Ad esempio, le imposte dirette, le imposte doganali e l’imposta sul valore aggiunto subiranno inevitabilmente importanti modifiche. Basti pensare che dovrebbero venir meno le agevolazioni previste dalla direttiva interessi e royalties (esonero dall’imposta italiana per interessi e canoni pagati tra società consociate all’interno della UE) e dalla direttiva “madre-figlia” (esenzione dall’imposta italiana su dividendi ed altri strumenti finanziari equiparati distribuiti da una società “figlia” italiana alla società “madre” o sua stabile organizzazione situate in un altro Stato membro della UE).

Anche le operazioni straordinarie transnazionali che coinvolgeranno soggetti UK, nonché spostamenti di sede in UK da parte di soggetti residenti UE, dovrebbero perdere il beneficio della neutralità fiscale. Dovrebbe essere nuovamente applicabile la ritenuta di cui all’art. 26, comma 1, del D.P.R. 600/1973 sugli interessi ed altri proventi corrisposti ai possessori di obbligazioni, titoli similari e cambiali finanziarie emesse dai soggetti indicati nel comma 1 dell’art. 23 del TUIR. Inoltre, gli interessi derivanti da finanziamenti a medio lungo termine alle imprese italiane erogati da banche UK dovrebbero scontare la ritenuta a titolo d’imposta di cui all’art. 26, comma 5, del D.P.R. 600/1973.

Veniamo ora all’aspetto centrale della questione. Considerata l’autonomia in termini di aliquote fiscali che il Regno Unito ha acquisito all’indomani dell’esito referendario e le già annunciate possibili riduzioni in tal senso, potrebbe accadere che lo stesso debba essere considerato in futuro un Paese a fiscalità privilegiata. Non è inverosimile pensare infatti che il Regno Unito, a seguito dell’uscita dalla UE, possa decidere di adottare politiche fiscali più favorevoli, al fine di attrarre maggiori investimenti e competere con molti governi europei, quali Olanda, Lussemburgo e Malta.

Conseguentemente, problematiche potrebbero sorgere in tema di normativa CFC. Non essendo il Regno Unito più un Paese UE, le società controllate ivi stabilite potrebbero rientrare nell’ambito di applicazione della disciplina generale di cui all’art. 167, comma 1, del TUIR, che prevede la tassazione per trasparenza dei redditi conseguiti dai soggetti residenti o localizzati in Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui al successivo comma 4, che, così come modificato dalla Legge 208/2015, sancisce definitivamente l’abbandono del sistema di elencazione tassativa dei Paesi black list, prevedendo che “I regimi fiscali, anche speciali, di Stati o territori si considerano privilegiati laddove il livello nominale di tassazione risulti inferiore al 50 per cento di quello applicabile in Italia”.

Infine, tutto ciò comporterebbe conseguenze anche in termini di tassazione di dividendi e plusvalenze. Ai sensi degli artt. 47, comma 4, e 68, comma 4, del TUIR (nonché dei corrispondenti artt. 89, comma 3, e 87, comma 1, del TUIR), infatti, gli utili e le plusvalenze derivanti da partecipazioni provenienti da Stati o territori a regime fiscale privilegiato concorrono integralmente alla formazione del reddito imponibile.

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