INCOTERMS: VANTAGGI E SVANTAGGI DELLA CLAUSOLA "EX WORKS"

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners – Studio Legale Tributario

Gli INCOTERMS (International Commercial Terms) sono la serie di termini codificati nel 1936 dalla ICC (International Chamber of Commerce), appartenenti al diritto pattizio ed utilizzati per definire in maniera univoca in tutto il mondo le responsabilità a carico dei vari soggetti giuridici coinvolti in una operazione di trasferimento di beni da una nazione all'altra e la suddivisione, tra gli stessi soggetti, dei costi di trasporto doganali ed assicurativi.
L’insieme dei termini che iniziano con la lettera “E” o “F” indicano costi e rischi a carico del compratore, quelli che iniziano con la lettera “C” indicano costi del trasporto a carico del venditore e rischio a carico del compratore, mentre quelli che iniziano per “D” indicano costi e rischi del trasporto a carico del venditore.

Nell'ambito del presente contributo, analizzeremo la clausola “franco fabbrica” o “Ex Works” (EXW).
La definizione di “Ex Works” secondo il testo ufficiale di ICC è:“Ex Works” means that the seller delivers when it places the goods at the disposal of the buyer at the seller’s premises or at another named place (i.e.,works, factory, warehouse, etc.). The seller does not need to load the goods on any collecting vehicle, nor does it need to clear the goods for export, where such clearance is applicable.”
“Ex Works”  sembrerebbe il termine meno impegnativo e meno costoso per il venditore, in quanto tutti i costi e i rischi in termini di trasporto ed assicurazione doganale sono a carico del compratore. Il venditore non è infatti tenuto ad occuparsi del carico delle merci nel vettore scelto dal compratore e non è tenuto nemmeno a sostenere i costi per lo sdoganamento all'esportazione. Il rischio di perimento della merce incombe totalmente sul compratore fin dalla presa in carico.
Il venditore adempie alle sue obbligazioni semplicemente mettendo la merce, imballata e facilmente riconoscibile, a disposizione del compratore nel luogo indicato (generalmente la propria fabbrica e/o magazzino).
In termini teorici per il venditore tale clausola rappresenterebbe il massimo della convenienza, ma proviamo ad analizzare le fasi logiche del processo di trasporto e consegna merci, al fine di immaginare cosa potrebbe accadere nella realtà di tutti i giorni:

Chi carica la merce sul vettore scelto da compratore?
Secondo la clausola EXW dovrebbe essere il compratore, ma nella realtà spesso accade che sia lo stesso venditore!
La merce é pronta, imballata e in attesa di essere presa in carico. Secondo la clausola EXW è il compratore a dover caricare fisicamente la merce sul mezzo di trasporto designato. Nel caso di scambi internazionali è evidente che ciò non sempre sia possibile. Immaginiamo una merce voluminosa: quando il vettore non è nelle condizioni di poter caricare la merce sul proprio mezzo di trasporto, interviene, spesso per gentilezza e cooperazione, il venditore con i propri mezzi. Ma immaginiamo il caso in cui, sfortunatamente, proprio mentre si compie tale operazione di carico la merce venga danneggiata: cosa succede? chi é il soggetto più tutelato? Certamente l’assicurazione coprirà il danno subito dal compratore e paradossalmente non quello del venditore! Eliminare il rischio a carico di quest’ultimo è impossibile in caso di EXW, ma una soluzione percorribile potrebbe essere quella in cui si aggiunga la parola “loaded” o “caricato” a tutela del venditore contro l’accusa di aver commesso un grave errore agendo contrariamente a quanto contrattualizzato.

Chi é il mittente della spedizione?
Secondo il termine EXW è il compratore, ma nella prassi accade spesso che chi compila il CRM (Lettera di Vettura Internazionale) sia il venditore!
Può accadere che il vettore consegni al venditore la Lettera di Vettura Internazionale (CRM) chiedendo allo stesso di compilarla. Tale lettera contiene tutte le informazioni e condizioni di trasporto (dati del mittente, del destinatario, del vettore, dati quali-quantitativi sulla merce, nonché luogo della spedizione, etc) e in caso di EXW dovrebbe essere il compratore ad adempiere alla formalità compilativa. Per ovvi motivi non può essere così, quindi è consigliabile per il venditore, qualora si trovasse nelle condizioni di dover redigere tale lettera, di specificare nella stessa che è “mittente per conto del compratore” così da prendere le distanze da qualsiasi rischio derivante dal trasporto.

Chi si occupa dell’operazione doganale di esportazione?
Secondo la clausola EXW è il compratore che, nella generalità dei casi dà istruzioni al vettore, ma quando questo non accade chi se ne occupa è il venditore!
Le operazioni doganali di esportazione sono a carico del compratore. Ma un soggetto estero può effettuare in modo semplice la dichiarazione di esportazione definitiva di un bene? È evidente che le operazioni doganali, quando non affidate dal compratore al vettore, possono essere espletate dal soggetto residente, ossia il venditore, ed in questo specifico caso, è bene che si richieda di aggiungere al termine EXW le parole “cleared for export” ovvero “sdoganamento della merce all'esportazione a cura del venditore” così da essere tutelato anche in questa operazione.

In conclusione, abbiamo riscontrato come il termine “Ex Works” - per quanto molto attraente per un venditore - nasconda non poche insidie. Dunque, per tutelare il venditore nelle operazioni che per prassi a volte si trova a dover adempiere, è consigliabile oltre a fare molta attenzione alla compilazione del CMR, specificare in fase contrattuale che si parla di “franco fabbrica caricato e sdoganato”, in inglese “EXW loaded and cleared for export”.

A cosa corrisponde un “EXW loaded and cleared for export”?
Ad un FCA, un “franco vettore” o “free carrier”: si tratta di un INCOTERMS già esistente, codificato ed utilizzato più di frequente nella maggior parte dei Paesi esteri.

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COSTI ANTIECONOMICI DEDUCIBILI PURCHE' INERENTI

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners - Studio Legale Tributario, da "Altalex" - 3 Marzo 2015

È deducibile anche il costo antieconomico, purché sia inerente. L’Amministrazione finanziaria esprime solo un giudizio fondato su indici presuntivi, da cui il giudice di merito può discostarsi. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza del 18 febbraio 2015, n. 3198, che stride irrimediabilmente con il precedente orientamento della giurisprudenza tributaria di legittimità.
Con la pronuncia in commento, i Giudici di Piazza Cavour, intervenendo sulla nota questione della deducibilità dei costi “antieconomici”, hanno affermato tout court che l’Amministrazione finanziaria deve motivare le proprie conclusioni prima di poterne negare la deducibilità e il giudice può comunque discostarsi da tali argomentazioni, riconoscendo la deducibilità delle spese inerenti qualora ritenga non dimostrata l’irragionevolezza economica contestata.
Ciò, in considerazione di quanto disposto dall’art. 54, comma 1, del D.P.R. 917/1986, secondo cui “il reddito derivante dall’esercizio di arti e professioni è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei compensi in denaro o in natura percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di partecipazione agli utili, e quello delle spese sostenute nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte o della professione …”.
Tale norma consentirebbe – sostengono i Giudici di legittimità – la deducibilità dal reddito imponibile degli esercenti arti e professioni delle sole spese provviste dell’attributo dell’inerenza rispetto all’attività esercitata, intendendo sottolineare il rapporto di diretta ed immediata correlazione che deve instaurarsi, ai fini della determinazione della base imponibile, tra la spesa sostenuta e l’arte o la professione esercitata.
Ma non solo. Gli ermellini osservano altresì come “non è utilmente spendibile l’argomento del fisco secondo cui il controllo di inerenza non potrebbe andare disgiunto dall’apprezzamento in punto di ragionevolezza della spesa, onde non sarebbero deducibili le spese connesse a comportamenti del contribuente che non si giustificano sotto il profilo dell’economicità, poiché in tal modo la critica che si muove alla sentenza fuoriesce dal piano dell’errore di diritto, non si censura più la sentenza per aver errato nell’individuazione della norma da applicare, ma per aver errato nel modo di applicarla”.
La vicenda traeva origine da una verifica fiscale eseguita a carico di un medico specialistico (ortopedico), cui era stato notificato un avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle entrate disconosceva la deducibilità del canone corrisposto per la locazione dell’ambulatorio e per i relativi servizi di segreteria. Il contribuente impugnava l’avviso di accertamento dinanzi alla competente Commissione tributaria provinciale, che annullava parzialmente la pretesa tributaria.
Tale decisione veniva confermata anche dai Giudici di appello, i quali escludevano “la sussistenza di una presunzione grave, precisa e concordante, idonea a trasferire sul contribuente l’onere di giustificare altrimenti (cioè sulla base di ragioni economiche diverse dall’illegittimo risparmio di imposta) l’operazione effettuata, ovvero, in altri termini, di fornire la prova della valida esistenza di ragioni economiche”.
Avverso tale sentenza, l’Ufficio proponeva ricorso per cassazione, sostenendo che “rientra nei poteri dell’Amministrazione finanziaria la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nelle dichiarazioni fiscali” e che i Giudici di secondo grado avrebbero “ignorato che sussiste da tempo nell’ordinamento giuridico italiano un generale principio antielusivo, il cui fondamento risiede nell’art. 53 Cost.”. La Suprema Corte ha tuttavia respinto il ricorso, confermando le precedenti pronunce.
In particolare, gli ermellini, dopo aver osservato che, in materia di redditi di lavoro autonomo, la base imponibile è costituita dalla differenza tra l’ammontare dei compensi percepiti e quello dei costi sostenuti inerenti all’attività esercitata ex art. 54 citato, hanno sottolineato che l’inerenza di un costo è legata alla produzione di ricavi, con la conseguenza che, una volta accertato questo legame, è difficile disconoscere la deducibilità senza “ricadere” in una valutazione discrezionale.
Dunque, secondo la Suprema Corte, quando l’Ufficio disconosce la deducibilità di un costo perché ritenuto antieconomico e, quindi, irragionevole, esprime un giudizio fondato su indici presuntivi, da cui il giudice può anche discostarsi, qualora ritenga che le conclusioni cui essa è giunta non dimostrino l’irragionevolezza economica contestata.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha rilevato che le presunzioni utilizzate dall’Amministrazione finanziaria per disconoscere la deducibilità dei canoni di locazione non erano gravi, precise e concordanti e, conseguentemente, ha affermato che potevano ritenersi spese inerenti l’attività professionale e, quindi, deducibili.
La soluzione cui pervengono i Giudici di Piazza Cavour appare particolarmente interessante ed attuale poiché non di rado l’Amministrazione finanziaria, al fine di disconoscere la deducibilità dei costi, si limita ad un’asserita antieconomicità degli stessi, lasciando al contribuente l’onere di dimostrarne la regolarità. Al contrario, secondo la pronuncia in commento, è l’Amministrazione finanziaria a dover motivare le proprie conclusioni prima di poter negare la deduzione delle spese sostenute.
Alla luce dei suesposti principi, appare dunque evidente come l’Amministrazione finanziaria non possa limitarsi ad una mera contestazione di antieconomicità dei costi sostenuti dal contribuente nell’esercizio di arti o professioni, ma deve, invece, motivare le proprie conclusioni prima di poterne negare la deducibilità, e il giudice può comunque discostarsi da tali valutazioni, qualora ritenga non dimostrata l’irragionevolezza economica.

 

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