LA NATURA AFFLITTIVA DEL FERMO AMMINISTRATIVO DEI BENI MOBILI REGISTRATI
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners - Studio Legale Tributario, da "Il caso.it", 11 gennaio 2016
Il provvedimento di fermo amministrativo dei beni mobili registrati ha natura non già di atto di espropriazione forzata, ma di procedura a questa alternativa, trattandosi di misura puramente afflittiva e coercitiva volta ad indurre il debitore all'adempimento, sicché la sua impugnativa, sostanziandosi in un'azione di accertamento negativo della pretesa creditoria, segue le regole del rito ordinario di cognizione e le norme generali in tema di riparto della competenza per materia e per valore.
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TRUST AUTO-DICHIARATO E AZIONE REVOCATORIA: SCIENTIA DAMNI DESUMIBILE DAGLI STRETTI RAPPORTI FAMILIARI TRA DISPONENTE E BENEFICIARIO
di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners - Studio Legale Tributario, da "Rivista di Diritto Bancario", 10 novembre 2015.
In caso di azione revocatoria, ex art. 2901 del codice civile, avente ad oggetto il conferimento di beni in trust, la c.d. “scientia damni” in capo al terzo acquirente è desumibile dal fatto che i beneficiari siano i più stretti familiari del debitore o quest’ultimo nella qualità di trustee. È questo il principio sancito dal Tribunale di Palmi, con sentenza del 14 novembre 2014, n. 885, che ha accolto la domanda revocatoria della segregazione di beni immobili in un trust autodichiarato, in quanto gli atti dispositivi erano lesivi della garanzia patrimoniale del creditore.
Con la pronuncia in commento, i Giudici calabresi, intervenendo su una delle più note questioni del panorama giuridico in tema di protezione patrimoniale ed azione revocatoria ordinaria (ovvero, il compimento di atti dispositivi finalizzati a sottrarre beni alla garanzia del credito), hanno affermato tout court che la consapevolezza in capo al terzo acquirente del pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore può essere desunta dalla circostanza che i beneficiari siano i più stretti familiari del debitore o quest’ultimo nella qualità di trustee.
La soluzione cui pervengono i Giudici calabresi consolida quel filone giurisprudenziale secondo cui, quando i beneficiari di un trust siano i più stretti familiari, ai fini della verifica dei presupposti legittimanti l’azione revocatoria ordinaria di cui all’art. 2901 del codice civile, non è necessario dar prova di alcuno stato soggettivo di consapevolezza del danno cagionato ai creditori in capo al terzo, poiché tale consapevolezza è facilmente desumibile dall’esistenza di un rapporto di familiarità tra il disponente e il/i beneficiario/i (cfr., ex multis Tribunale di Genova, sentenza del 18 febbraio 2015, n. 10051; Tribunale di Nola, sentenza del 14 maggio 2013, n. 1462).
La vicenda
La vicenda traeva origine dalla esclusione dalla compagine sociale di uno dei soci di una società in accomandita semplice, con conseguente revoca di quest’ultimo dalla carica di amministratore unico a seguito di delibera sociale, poi confermata dal Tribunale a conclusione del procedimento di reclamo instaurato dallo stesso socio uscente. A parere della società attrice, l’esclusione si fondava sul compimento di una serie di gravi inadempienze da parte del socio uscente, concretizzatisi nella irregolare gestione della contabilità e nello sviamento della clientela dalla società di cui non faceva più parte ad altra di cui lo stesso era institore. La società lamentava pertanto di essere esposta a gravi conseguenze patrimoniali, da cui derivava una pretesa creditoria, che induceva la società ad esperire azione revocatoria ordinaria, ex art. 2901 del codice civile, rispetto ad una pluralità di atti dispositivi del proprio patrimonio posti in essere dal socio uscente. In particolare, questi aveva compiuto diversi atti di disposizione del proprio patrimonioattraverso la costituzione di un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter del codice civile;l’istituzione di un trust auto-dichiarato; una donazione di quote sociali, nonché tramite lacessione di beni immobili in cambio di un vitalizio, stipulando un contratto di mantenimento.
La normativa
L’azione revocatoria è disciplinata dall’articolo 2901 del codice civile, il quale dispone testualmente che: “Il creditore, anche se il credito è soggetto a condizione o a termine, può domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio coi quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni quando concorrono le seguenti condizioni: 1) che il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al fine di pregiudicarne il soddisfacimento; 2) che, inoltre, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio, e, nel caso di atto anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa preordinazione.
Agli effetti della presente norma, le prestazioni di garanzia, anche per debiti altrui, sono considerate atti a titolo oneroso, quando sono contestuali al credito garantito. Non è soggetto a revoca l’adempimento di un debito scaduto. L’inefficacia dell’atto non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di revocazione”. Passando all’esame dei requisiti per la proposizione dell’azione de qua, l’art. 2901 citato prevede espressamente la sussistenza dei seguenti elementi:
- elemento oggettivo (c.d. eventus damni). Esso consiste nel pregiudizio alle ragioni del creditore. Non è necessario che il debitore si trovi in stato di insolvenza, essendo sufficiente che l’atto di disposizione da lui posto in essere produca pericolo o incertezza per la realizzazione del diritto del creditore, in termini di una possibile o eventuale infruttuosità di una futura azione esecutiva. Infatti, l’eventus damni ricorre non soltanto quando l’atto di disposizione determini la perdita della garanzia patrimoniale del creditore, ma anche quando tale atto comporti una maggiore difficoltà ed incertezza nell’esazione coattiva del credito. Inoltre, per la configurabilità del pregiudizio alle ragioni del creditore non è sufficiente che sussista un danno concreto ed effettivo, essendo invece sufficiente un pericolo di danno derivante dall’atto di disposizione, il quale abbia comportato una modifica della situazione patrimoniale del debitore tale da rendere incerta l’esecuzione coattiva del debito o da comprometterne la fruttuosità.
- elemento soggettivo (c.d. consilium fraudis). Esso consiste nella conoscenza in capo al debitore del pregiudizio che l’atto di disposizione può arrecare alle ragioni del creditore. Si intende non già una specifica intenzione di nuocere alle ragioni creditorie, bensì una situazione di semplice conoscenza (ovvero, addirittura di conoscibilità, secondo il parametro della media diligenza) del pregiudizio che l’atto è in grado di produrre alla garanzia del credito.Se l’atto è stato compiuto prima che sorgesse il diritto di credito, è necessario che l’atto di disposizione fosse dolosamente preordinato al fine di danneggiare il futuro creditore.
- elemento soggettivo (c.d. scientia damni). Esso consiste nella consapevolezza in capo al terzo acquirente del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni del creditore o, trattandosi di un atto anteriore al sorgere del credito, nella dolosa intenzione di pregiudicarne il soddisfacimento. Ai fini della sussistenza del suddetto requisito, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “ allorché l’atto di disposizione sia successivo al sorgere del credito, è necessaria e sufficiente la consapevolezza di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore, essendo l’elemento soggettivo integrato dalla semplice conoscenza – a cui va equiparata la agevole conoscibilità – nel debitore di tale pregiudizio, a prescindere dalla specifica conoscenza del credito per la cui tutela viene esperita l’azione, e senza che assumano rilevanza l’intenzione del debitore di ledere la garanzia patrimoniale generica del creditore (c.d. consilium fraudis), né la partecipazione o la conoscenza da parte del terzo in ordine alla intenzione fraudolenta del debitore” (Cass., sentenze nn. 2792/2002 e 7262/2000).
La decisione dei Giudici
I Giudici calabresi affermano tout court che non sussistono dubbi in ordine al fondamento dell’azione revocatoria proposta dalla società attrice (presunto creditore), poiché i requisiti legittimanti la domanda risultano tutti pienamente soddisfatti. In primis, per quanto concerne il c.d. “eventus damni”, i Giudici di primo grado osservano, innanzitutto, come non possa non farsi riferimento ai noti arresti giurisprudenziali (ex multis, Cass., sentenza n. 23891 del 2013), secondo cui “L’azione revocatoria avente ad oggetto il negozio di conferimento è ammissibile, non interferendo sulla validità del contratto costitutivo della società [...], né subendo alcun vulnusil principio di separazione del patrimonio societario rispetto a quello dei soci, [...], né, infine, precludendola la disciplina in tema di prescrizione (art. 2901, ultimo comma, cod. civ.) che tutela gli aventi causa dell’acquirente diretto ...”. Chiarito ciò, i medesimi Giudici, richiamando una nota giurisprudenza di legittimità (Cass., sentenza del 24 luglio 2003, n. 11471), osservano che “nell’azione revocatoria ordinaria il pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore consiste nella insufficienza dei beni del debitore ad offrire la garanzia patrimoniale” e che, “essendo richiesta, a fondamento dell’azione, soltanto il compimento di un atto che renda più incerta o difficile la soddisfazione del credito, l’onere di provare l’insussistenza di tale rischio incombe, secondo i principi generali, al convenuto nell’azione di revocazione, che eccepisca la mancanza, per questo motivo, dell'eventus damni”.
Conseguentemente, sulla base della considerazione per la quale sarebbe stato onere del convenuto (presunto debitore) provare la sussistenza di garanzie patrimoniali ulteriori rispetto ai beni conferiti e idonee ad evitare il pregiudizio nei confronti del creditore, ex art. 2740 del codice civile, e che, acontrariis, tale onere probatorio non risulta soddisfatto dal convenuto, i Giudici del Tribunale di Palmi ritengono sussistente il primo presupposto di esperibilità dell’azione revocatoria (ovvero, l’eventus damni). In secundis, per quanto concerne il c.d. “consilium fraudis”, i Giudici osservano come “non occorre nel caso di specie la prova del consilium fraudis”, atteso che gli atti posti in essere sono tutti atti a titolo gratuito, ad eccezione di un solo atto a titolo oneroso, che è, in ogni caso, posteriore al sorgere del diritto di credito.
Da ultimo, con particolare riferimento alla c.d. “scientia damni”, ovvero la consapevolezza in capo al terzo acquirente del pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore, i Giudici calabresi affermano tout court che “pare evidente come le circostanze che i beneficiari degli atti fossero i più stretti familiari del debitore, e addirittura quest’ultimo nella qualità di trustee, costituiscono elementi indubbiamente rilevanti a far ritenere sussistente siffatta scientia damni, in quanto idonei a supportare una valutazione probatoria ex art. 2729 c.c., integrando presunzioni gravi, precise e concordanti”. Sulla base delle suesposte argomentazioni, i Giudici di primo grado hanno accolto, dunque, la domanda revocatoria proposta dalla società attrice, con conseguente declaratoria di inefficacia degli atti dispositivi compiuti dal socio uscente.
Conclusione
La giurisprudenza in tema di presupposti e modalità operative della revocatoria ordinaria azionata verso il trust ha contribuito, negli ultimi anni, ad una progressiva implementazione dell’istituto, che risulta scevra da intenti volti ad un utilizzo non solo fraudolento, ma anche semplicemente improprio del trust. In tal senso, è degna di rilievo la pronuncia in commento, atteso che i Giudici calabresi giungono ad affermare un principio molto importante in ordine alla verifica dei presupposti legittimanti l’azione revocatoria ordinaria, di cui all’art. 2901 del codice civile, così offrendo un interessante spunto di riflessione.
Come detto in apertura del presente contributo, i Giudici affermano tout court che, in caso di azione revocatoria, ex art. 2901 del codice civile, avente ad oggetto il conferimento di beni in trust, la c.d. “scientia damni” in capo al terzo acquirente è desumibile dal fatto che i beneficiari siano i più stretti familiari del debitore o quest’ultimo nella qualità di trustee.
Orbene, i Giudici, applicando correttamente i presupposti richiesti dall’art. 2901 citato, dopo aver ritenuto sussistente sia l’eventus damni che il consilium fraudis, concludono affermando che non è necessario dar prova di alcuno stato soggettivo di consapevolezza del danno cagionato ai creditori in capo al terzo, poiché tale consapevolezza è facilmente desumibile dall’esistenza di un rapporto di familiarità tra il disponente e i beneficiari.
A parere di chi scrive, il principio testé riportato appare, infatti, pienamente condivisibile, laddove si adotti un approccio interpretativo orientato a garantire la più completa tutela al creditore leso dalla riduzione della garanzia patrimoniale offerta dal debitore. In definitiva, ogni qualvolta un trust maturato in un contesto familiare non risulti finalizzato al conseguimento di interessi meritevoli di tutela e, in particolare, sia volto ad inficiare la garanzia patrimoniale del debitore/disponente ex art. 2740 del codice civile, appare ragionevole desumere che vi sia la consapevolezza del danno cagionato ai creditori in capo al terzo acquirente.
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CRESCITA E INTERNAZIONALIZZAZIONE: IL DECRETO APPRODA IN GAZZETTA UFFICIALE
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners - Studio Legale Tributario, da "Rivista di Diritto Bancario", 24 settembre 2015.
Nella Gazzetta Ufficiale del 22 settembre 2015 è stato pubblicato il D.Lgs. 147/2015, contenente “Disposizioni sulle misure per la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese”, cui il Governo aveva dato il via libera definitivo nel Consiglio dei ministri dello scorso 6 agosto.
Come noto, la Legge 11 marzo 2014, n. 23, delegava il Governo all'adozione di più decreti legislativi per la realizzazione di un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita. Uno dei temi centrali della delega era rappresentato dalla revisione della disciplina impositiva relativa alle operazioni transfrontaliere con l'obiettivo di rendere il nostro Paese maggiormente attrattivo e competitivo per le imprese che intendono operare in Italia.
Il provvedimento, che entrerà in vigore il prossimo 7 ottobre, ha dunque lo scopo di favorire l’internazionalizzazione dei soggetti economici operanti in Italia, in applicazione delle raccomandazioni degli organismi internazionali e dell’Unione europea, tenendo altresì conto dei più recenti orientamenti emersi in sede OCSE e degli sviluppi della discussione a livello europeo sull’adozione di una base imponibile comune consolidata.
Il decreto introduce numerose modifiche alla vigente disciplina delle imposte sui redditi e dell’Irap e, ove necessario, anche alla disciplina in materia di accertamento, risultando di interesse non solo per le imprese estere che effettuano investimenti o esercitano attività in Italia, ma anche per le imprese italiane con attività transazionale, nonché per le imprese italiane con attività interna.
Ciò premesso, di seguito si illustreranno sinteticamente i sedici articoli di cui si compone il provvedimento legislativo.
Articolo 1 – Accordi preventivi per le imprese con attività internazionale
L’articolo 1 modifica la disciplina degli accordi preventivi tra imprese con attività internazionale e Amministrazione finanziaria, attualmente contenuta nell’articolo 8 del D.L. 269/2003 (ruling internazionale). In particolare, la norma abroga il citato articolo 8 e introduce il nuovo articolo 31-ter del D.P.R. 600/1973, riconducendo le disposizioni in materia di accordi preventivi nell’alveo della disciplina generale dell’attività di accertamento.
Tra le principali novità introdotte dall’art. 31-ter citato vi è l’estensione dell’ambito oggettivo della procedura di accordo preventivo. Alla nuova procedura, infatti, si può accedere anche per la definizione dei valori di ingresso e di uscita in caso di trasferimento della residenza, nonché per l’attribuzione di utili e perdite alla stabile organizzazione in un altro Stato di un’impresa o un ente residente ovvero alla stabile organizzazione in Italia di un soggetto non residente.
Inoltre, è previsto che le imprese che aderiscono al nuovo regime dell’adempimento collaborativo hanno accesso alla nuova procedura anche ai fini della preventiva definizione in contraddittorio dei metodi di calcolo del valore normale delle operazioni con soggetti localizzati in Paesi black list.
Articolo 2 – Interpello sui nuovi investimenti
Al fine di dare certezza alle imprese, italiane ed estere, che intendono effettuare rilevanti investimenti in Italia, l'articolo 2 introduce una nuova tipologia di interpello, alla quale le imprese possono accedere per sollecitare un’attività di consulenza da parte dell’Agenzia delle Entrate in merito al trattamento fiscale del loro piano di investimento e delle eventuali operazioni straordinarie che si ipotizzano necessarie per la sua realizzazione.
L'istanza di interpello può essere presentata dalle imprese che intendono effettuare investimenti in Italia di ammontare non inferiore a 30 milioni di euro e, quindi, in grado di avere significative ricadute occupazionali in relazione all’attività in cui avviene l’investimento. A tal fine, le imprese devono presentare un dettagliato business plan e ogni altro elemento informativo utile.
L’Agenzia delle Entrate risponde entro 120 giorni, con applicazione, in mancanza di risposta nei termini, del meccanismo del silenzio-assenso.
Articolo 3 – Dividendi provenienti da soggetti residenti in Stati o territori a regime fiscale privilegiato
L’articolo 3 introduce una serie di rilevanti modifiche alla disciplina del regime fiscale relativo alla percezione da parte di soci residenti in Italia di dividendi provenienti da società residenti in Stati o territori a fiscalità privilegiata.
In base alla normativa vigente, come noto, i dividendi provenienti, anche indirettamente, da Paesi black list sono assoggettati a tassazione, in via generale, in capo al socio residente (persona fisica o giuridica) per l’intero importo.
In base alle nuove disposizioni, il meccanismo della integrale imponibilità viene invece limitato ai soli casi di partecipazione diretta in una società black listed o, nei casi di partecipazione indiretta, all’ipotesi in cui il socio residente detenga una partecipazione di controllo in una società intermedia non black list (italiana o estera), che consegue a sua volta utili da partecipate, anche non di controllo, in Stati black list.
Inoltre, al fine di ovviare a possibili fenomeni distorsivi, la nuova disciplina riconosce al socio di controllo residente (ovvero alle sue controllate residenti) un credito per le imposte assolte dal soggetto partecipato estero nello Stato o territorio di localizzazione. Il riconoscimento del credito d’imposta è tuttavia subordinato alla dimostrazione che la società non residente, da cui provengono i dividendi, svolga un’effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, nel mercato dello Stato di residenza. Il credito spetta al socio pro-quota, ossia in proporzione alla sua quota di partecipazione e al periodo di detenzione.
La disposizione prevede che, per poter disapplicare la norma che prevede l’imposizione integrale, il soggetto residente deve comunque dimostrare, anche mediante la presentazione di apposito interpello, che dal possesso delle partecipazioni non consegue l’effetto di localizzare redditi in Stati o territori a fiscalità privilegiata.
Viene prevista, infine, l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria per la mancata esposizione nella dichiarazione dei redditi di proventi relativi a partecipazioni black listed.
Articolo 4 – Interessi passivi
L'articolo 4 interviene sul regime di deducibilità degli interessi passivi. Innanzitutto, ai fini della deduzione, è prevista l’inclusione nel calcolo del ROL (risultato operativo lordo) anche dei dividendi incassati provenienti dalle società controllate estere.
Viene abrogata la norma che consente di calcolare il limite di deduzione degli interessi passivi includendo virtualmente nel consolidato nazionale anche le società controllate estere, in modo da poter tener conto anche del ROL di tali società.
Viene modificata, altresì, la disciplina della deducibilità degli interessi passivi per i finanziamenti assistiti da ipoteca in favore delle società che svolgono attività immobiliare, specificando che tale normativa si applica alle società che svolgono effettivamente e prevalentemente attività immobiliare ovvero il cui valore dell’attivo patrimoniale è costituito per la maggior parte dal valore normale degli immobili destinati alla locazione e i cui ricavi sono rappresentanti per almeno i due terzi da canoni di locazione o affitto di aziende, il cui valore corrispettivo sia prevalentemente costituito dal valore normale di fabbricati.
Infine, viene abrogata la norma che limita la deducibilità degli interessi passivi su titoli obbligazionari negoziati in Paesi non white list.
Articolo 5 – Disposizioni in materia di costi black list e di valore normale
L'articolo 5 modifica la vigente disciplina dei costi black list, contenuta prevalentemente nell’articolo 110 del TUIR. In particolare, viene introdotta la deducibilità delle spese e degli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con imprese localizzate in Stati o territori aventi regimi fiscali privilegiati, individuati in ragione della mancanza di un adeguato scambio di informazioni, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze.
La deduzione è consentita entro il limite del valore normale, di cui all'art. 9 del TUIR, dei beni e dei servizi acquistati in base a operazioni che hanno avuto concreta esecuzione.
Viene inoltre eliminata la condizione che subordinava la deducibilità di tali costi alla circostanza che l’impresa estera svolgesse prevalentemente un’attività commerciale effettiva.
Infine, viene introdotta una norma di interpretazione autentica, allo scopo di precisare che la disciplina contenuta nell’articolo 110, comma 7, del TUIR non ha valenza per le operazioni che intercorrono tra soggetti residenti o localizzati nel territorio dello Stato. Ciò vuol dire che le disposizioni previste per le ipotesi di transfer pricing estero non possono essere estese alle transazioni intercorse tra soggetti residenti facenti parte dello stesso gruppo.
Articolo 6 – Consolidato nazionale
Al fine di adeguare la normativa interna alla sentenza della Corte di giustizia 12 giugno 2014 n. C-39/13, C-40/13 e C-41/13, l'articolo 6 modifica la disciplina del consolidato nazionale, di cui agli artt. 117 e ss. del TUIR.
Vengono introdotte, pertanto, una serie di novità finalizzate a estendere l’ambito di applicazione del consolidato nazionale, con particolare riferimento alle società non residenti.
In base alla disciplina previgente, l’opzione per tale regime di tassazione era consentita, oltre che alle società residenti, alle società non residenti solo in qualità di controllanti e a condizione che fossero residenti in Paesi con i quali fosse in vigore un accordo per evitare la doppia imposizione e che esercitassero attività d’impresa in Italia mediante una stabile organizzazione, il cui patrimonio comprendesse la partecipazione in ciascuna società controllata.
La nuova disciplina elimina il predetto vincolo, consentendo alle società “sorelle”, sia residenti in Italia sia stabili organizzazioni in Italia di società residenti in Stati appartenenti all’UE ovvero in Stati SEE con cui l’Italia abbia stipulato un accordo che assicuri un effettivo scambio di informazioni, di consolidare le proprie basi imponibili, previa indicazione, da parte del soggetto non residente, della controllata designata ad esercitare l’opzione, che assume il ruolo di consolidante.
Articolo 7 – Stabili organizzazioni in Italia di soggetti non residenti
L’articolo 7 introduce alcune nuove regole per la determinazione del reddito derivante da attività esercitate in Italia mediante stabile organizzazione, in linea con le indicazioni e gli orientamenti elaborati dall’OCSE.
In particolare, il nuovo art. 151 del TUIR, per le società e gli enti commerciali non residenti, prevede, ai fini IRES, la tassazione su base isolata, senza compensazioni e secondo le disposizioni del Titolo I del TUIR, dei redditi che si considerano prodotti nel territorio dello Stato, con la sola eccezione dei redditi di impresa da stabile organizzazione per i quali trova applicazione la disciplina di cui all'art. 152 del TUIR.
La nuova disciplina semplifica gli adempimenti a carico delle società e degli enti non residenti che, a regime, saranno tenuti a presentare un’unica dichiarazione dei redditi, nella quale indicare, per ciascuna categoria, tutti i redditi prodotti nel territorio dello Stato. In base al nuovo art. 152 citato, il reddito della stabile organizzazione di società ed enti non residenti è determinato sulla base degli utili e delle perdite riferibili alla stabile e secondo le disposizioni previste per i soggetti IRES.
Articolo 8 – Disciplina delle controllate e delle collegate estere
L’articolo 8 modifica la disciplina vigente in materia di società collegate estere, di cui agli artt. 167 e 168 del TUIR. In particolare, viene eliminato l’obbligo di interpello ai fini della disapplicazione della disciplina CFC in caso di partecipazioni in imprese estere controllate. Tale obbligo è sostituito dalla facoltà per il socio di controllo residente di presentare interpello per ottenere il preventivo parere dell’Amministrazione finanziaria in merito alla disapplicazione della disciplina CFC.
Il socio residente controllante, fatti salvi i casi di applicazione della disciplina CFC o della sua disapplicazione a seguito di interpello favorevole, deve comunque segnalare nella dichiarazione dei redditi la detenzione di partecipazioni estere.
L’omessa segnalazione in dichiarazione del possesso di partecipazioni di controllo rientranti nell’ambito applicativo della disciplina CFC non preclude al contribuente la possibilità di dimostrare la sussistenza delle esimenti; tuttavia, tale omissione comporta l’irrogazione della sanzione prevista nel nuovo comma 3-quater dell’articolo 8 del D.Lgs. n. 471/1997.
Viene abolito il regime di tassazione per trasparenza delle società collegate di black list, di cui all’art. 168 del TUIR.
Articolo 9 – Spese di rappresentanza
L'articolo 9 modifica la disciplina in materia di spese di rappresentanza di cui all’art. 108 del TUIR. In base alle nuove disposizioni, le spese di rappresentanza saranno deducibili nel periodo d’imposta in cui sono state sostenute, se rispondenti ai requisiti di inerenza stabiliti con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, anche in funzione della natura e della destinazione delle stesse, secondo percentuali differenti in ragione degli scaglioni – definiti dal comma 1 dell’art. 108 citato – di ricavi e proventi della gestione caratteristica dell’impresa, come risultanti dalla dichiarazione dei redditi.
Le percentuali di deduzione vengono modificate al rialzo rispetto alle previgenti aliquote e saranno pari all’1,5% dei ricavi e altri proventi fino a 10 milioni di euro; allo 0,6% dei ricavi e altri proventi per la parte eccedente i 10 milioni di euro e fino a 50 milioni di euro; allo 0,4% dei ricavi e altri proventi per la parte eccedente i 50 milioni di euro.
La misura della deducibilità delle spese di rappresentanza può essere stabilita con il citato D.M. Con il medesimo decreto potrà essere elevato il limite di valore dei beni distribuiti gratuitamente, le cui spese possono essere dedotte dall’imponibile.
Articolo 10 – Liste dei Paesi che consentono un adeguato scambio di informazioni e coordinamento black list
L'articolo 10 introduce alcune modifiche all'attuale disciplina in materia di individuazione dei “paradisi fiscali”. Viene abrogato l’art. 168-bis del TUIR, che dispone l’emanazione di due white list: la prima che individua i Paesi e i territori che consentono un adeguato scambio di informazioni; la seconda che tiene conto, oltre che del livello dello scambio informativo, anche dell’effettiva tassazione estera.
In base alla nuova disciplina, viene conferito al Ministro dell'economia e delle finanze il compito di individuare, con uno o più decreti, l’elenco degli Stati che consentono un adeguato scambio di informazioni. Le disposizioni di coordinamento introdotte sono tese a chiarire che il riferimento ai “regimi fiscali privilegiati”, contenuto in norme vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo, è da intendersi effettuato a Stati o territori individuati in ragione del livello di tassazione sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia, della mancanza di un adeguato scambio di informazioni ovvero di altri criteri equivalenti, ai sensi dell’art. 167, comma 4, del TUIR.
Articolo 11 – Sospensione della riscossione della tassazione in caso di trasferimento all’estero
L’articolo 11 modifica il vigente regime fiscale del trasferimento intracomunitario di sede all’estero, modificando gli artt. 166 e 179 del TUIR. In particolare, viene previsto che il regime opzionale della sospensione della “exit tax” possa operare anche in caso di trasferimento, effettuato da un’impresa non residente nel territorio dello Stato, di una parte o della totalità degli attivi collegati a una stabile organizzazione, aventi a oggetto un’azienda o un ramo d’azienda, verso altro Stato appartenente all’Unione europea ovvero aderente all’accordo sullo Spazio economico europeo.
Inoltre, il regime della sospensione viene esteso anche ai trasferimenti che conseguono indirettamente ad altre operazioni straordinarie (fusioni, scissioni e conferimenti).
Articolo 12 – Trasferimento della residenza nel territorio dello Stato
L’articolo 12 introduce nel TUIR il nuovo art. 166-bis, che disciplina il regime delle attività e passività di imprese commerciali che trasferiscono la loro residenza fiscale in Italia, diversificandone la disciplina in base al territorio di provenienza.
Per le imprese provenienti da Stati o territori che consentono un adeguato scambio di informazioni, si assume quale valore fiscale il valore normale delle attività e passività (anche in assenza dell’applicazione di una exit tax da parte dello Stato di provenienza).
Per le imprese provenienti, invece, da Stati o territori diversi da quelli sopra indicati, per i quali non sussiste un adeguato scambio informativo, il valore delle attività e delle passività è assunto in misura pari al valore normale, così come determinato in esito a un accordo preventivo concluso ai sensi del nuovo articolo 31-ter del D.P.R. 600/1973 (“Accordi preventivi per le imprese con attività internazionale”).
In mancanza di accordo, il valore fiscale delle attività e passività trasferite è assunto, per le attività, in misura pari al minore tra il costo di acquisto, il valore di bilancio e il valore normale, mentre per le passività, in misura pari al maggiore tra questi. Per la determinazione del valore normale si applica l’art. 9 del TUIR.
Articolo 13 – Perdite su crediti
L'articolo 13 modifica il regime fiscale della deducibilità delle perdite su crediti, modificando gli artt. 88, 94 e 101 del TUIR, al fine di prendere in considerazione anche gli accordi, previsti da legislazioni di Stati esteri, che siano analoghi a quelli disciplinati dalla normativa interna (segnatamente, dalla legge fallimentare) in materia di sovraindebitamento e risanamento dei debiti aziendali.
In primo luogo, si definiscono nuovi criteri di individuazione delle sopravvenienze attive tassabili, prevedendo che la rinuncia dei soci ai crediti è considerata sopravvenienza attiva per la sola parte che eccede il relativo valore fiscale. Inoltre, fermo restando che non sono sopravvenienze attive le riduzioni dei debiti dell’impresa in sede di concordato fallimentare o preventivo, vengono equiparate a tali ipotesi anche le riduzioni effettuate in sede di procedure estere equivalenti, previste in Stati o territori con i quali esiste un adeguato scambio di informazioni, o per effetto della partecipazione delle perdite da parte dell’associato in partecipazione.
In secondo luogo, la nuova disciplina introduce ulteriori ipotesi di deducibilità delle perdite su crediti. In particolare, si rendono deducibili le perdite su crediti risultanti da un piano di rientro dai debiti ovvero quelle rilevanti ove il debitore sia assoggettato a procedure estere equivalenti a quelle italiane, previste in Stati o territori con i quali esiste un adeguato scambio di informazioni.
Si introduce altresì una specifica disciplina per i crediti di modesta entità e per quelli vantati nei confronti di debitori che siano assoggettati a procedure concorsuali o a procedure estere equivalenti ovvero abbiano concluso un accordo di ristrutturazione dei debiti o un piano attestato dì risanamento.
Infine, si stabilisce che la rinuncia dei soci ai crediti non è ammessa in deduzione nei limiti del valore fiscale del credito oggetto di rinuncia.
Articolo 14 – Esenzione degli utili e delle perdite delle stabili organizzazioni di imprese residenti
L’articolo 14 introduce nel nostro ordinamento la c.d. “branch exemption”, ovvero la possibilità che in capo a un’impresa residente nel territorio dello Stato non assumano rilevanza fiscale gli utili e le perdite realizzati dalle sue stabili organizzazioni all’estero, da determinarsi in ogni caso in base ai criteri di cui all’art. 152 del TUIR.
A tal proposito, viene inserito nel TUIR il nuovo art. 168-ter, in base al quale si consente a un’impresa residente in Italia di esercitare l’opzione per esentare utili e perdite attribuibili a tutte le proprie stabili organizzazioni all’estero. L’opzione è irrevocabile ed è esercitata nel momento di costituzione della stabile organizzazione, con effetto dal medesimo periodo d’imposta.
Qualora la stabile organizzazione sia localizzata in Stati o territori a regime fiscale privilegiato, l’opzione per la branch exemption si esercita, relativamente alle stabili organizzazioni localizzate in detti territori, purché ricorrano le esimenti previste dalla legge.
Si riconosce, infine, al contribuente la possibilità di interpellare l’Agenzia delle Entrate in merito all’esistenza di una sua stabile organizzazione estera.
Articolo 15 – Credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero
L’articolo 15 modifica il regime del credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero, di cui all'art. 165 del TUIR, al fine di estendere a tutti i contribuenti le disposizioni attualmente riservate ai redditi d’impresa prodotti all’estero tramite una stabile organizzazione.
Innanzitutto, viene esteso a tutti i contribuenti il regime di detraibilità per competenza, consentendo la detraibilità delle imposte estere nel periodo in cui il reddito estero concorre al reddito complessivo in Italia, purché le medesime imposte estere siano state pagate a titolo definitivo entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al primo periodo d’imposta successivo. Viene altresì esteso a tutti i contribuenti il regime di riporto avanti e indietro delle eccedenze dei crediti di imposta.
Infine, viene introdotta una disposizione interpretativa in forza della quale si stabilisce che l’art. 165 trova applicazione tanto alle imposte coperte da convenzione quanto a ogni altra imposta o tributo estero sul reddito. In caso di incertezza in merito alla natura del tributo non coperto da una convenzione, di cui si intende chiedere la detrazione, il contribuente può presentare istanza di interpello all’Amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 11 della Legge 212/2000.
Articolo 16 – Regime speciale per lavoratori rimpatriati
L'articolo 16 introduce una norma fiscale di favore avente carattere temporaneo, in base alla quale il reddito prodotto in Italia da lavoratori dipendenti, che trasferiscono la residenza fiscale nel territorio dello Stato, concorre a formare il reddito complessivo soltanto per il 70% del suo ammontare. L’obiettivo è quello di favorire e incentivare l’attrazione in Italia di capitale umano altamente qualificato.
A tal fine, è richiesto il ricorrere delle seguenti condizioni:
- i lavoratori non devono essere stati residenti in Italia nei cinque periodi di imposta precedenti il trasferimento;
- l’attività lavorativa deve essere svolta presso un’impresa residente nel territorio dello Stato in forza di un rapporto di lavoro instaurato con questa o con società che direttamente o indirettamente controllano la medesima impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa;
- l’attività lavorativa deve essere prestata prevalentemente nel territorio italiano;
- i lavoratori devono rivestire una qualifica per la quale sia richiesta alta qualificazione o specializzazione e devono essere in possesso del titolo di laurea.
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NULLI GLI ATTI FISCALI SOTTOSCRITTI DA "FALSI" DIRIGENTI
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners - Studio Legale Tributario, da "Rivista di Diritto Bancario", 29 giugno 2015
La sottoscrizione degli atti fiscali.
Prima di affrontare una delle questioni attualmente più controverse del panorama giuridico tributario, ovvero la validità degli atti sottoscritti da direttori non vincitori di pubblico concorso o da funzionari da essi delegati, è opportuno operare un excursus normativo della materia, al fine di comprenderne le problematiche sottese.
Innanzitutto, occorre richiamare il Regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle entrate, approvato con delibera del Comitato direttivo n. 4 del 30 novembre 2000 ed aggiornato fino alla delibera del Comitato di gestione n. 57 del 27 dicembre 2012. Esso sancisce, tra i tanti, il principio in virtù del quale “gli avvisi di accertamento sono emessi dalla direzione provinciale e sono sottoscritti dal rispettivo direttore o, per delega di questi, dal direttore dell’ufficio preposto all’attività accertatrice ovvero da altri dirigenti o funzionari, a seconda della rilevanza e complessità degli atti …”.
Ne consegue che le direzioni provinciali dell’Agenzia delle entrate sono uffici di livello dirigenziale ed i relativi dirigenti devono sottoscrivere gli atti fiscali o delegare altri dirigenti o funzionari, a seconda della rilevanza e complessità degli stessi.
In secondo luogo, è necessario evidenziare che la Legge n. 241 del 1990, così come modificata dalla Legge n. 15 del 2005, determina i casi di efficacia ed invalidità dei provvedimenti amministrativi. In particolare, la predetta Legge 241/90 reca due previsioni normative, ovvero gli artt. 21-septies e 21-opties, che integrano la disciplina degli atti posti in essere dall’Amministrazione finanziaria, individuandone ulteriori requisiti formali.
I succitati artt. 21-septies e 21-opties, rubricati “nullità del provvedimento” e “annullabilità del provvedimento”, dispongono rispettivamente che: “È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge…” e che “È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza … “.
Infine, occorre richiamare, per quanto concerne gli avvisi di accertamento, l’art. 42, comma 1, del D.P.R. 600/73, il quale, nel disciplinare gli aspetti formali e sostanziali del provvedimento amministrativo, prevede che: “Gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di avvisi sottoscritti dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato … L’accertamento è nullo se l’avviso non reca la sottoscrizione, le indicazioni e la motivazione di cui al presente articolo”. La stessa disposizione si applica anche ai fini IVA, in virtù dell’espresso richiamo contenuto nell’art. 56, comma 1, del D.P.R. 633/72, come più volte riconosciuto dalla Suprema Corte.
Ciò premesso, è ormai noto, non solo agli operatori del diritto, come, negli ultimi anni, l’Amministrazione finanziaria abbia notificato, sempre più spesso, atti fiscali sottoscritti da persone diverse dal capo dell’Ufficio.
Ne è derivato un acceso dibattito, dottrinario e giurisprudenziale, in merito alla validità di tali atti e, in particolare, agli eventuali diversi requisiti che debba avere un atto sottoscritto da una persona diversa dal capo dell’Ufficio.
È divenuta così preminente l’esigenza del contribuente di verificare l’esistenza di una delega, la sussistenza dei requisiti professionali che permettano al soggetto delegato di agire per conto del direttore dell’Ufficio e, soprattutto, la legittimità di tale nomina, alla luce dei principi sanciti dalla Legge 241/90, dallo Statuto del Contribuente e dalla Carta Costituzionale.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 37/2015.
La Corte Costituzionale, con recentissima sentenza n. 37 del 25 Febbraio 2015, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle seguenti norme, in riferimento agli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione:
1) dell’art. 8, comma 24, del D.L. n. 16 del 02/03/2012 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e di potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della Legge n. 44 del 26/04/2012;
2) dell’art. 1, comma 14, del D.L. n. 150 del 30/12/2013 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della Legge n. 15 del 27/02/2014;
3) dell’art. 1, comma 8, del D.L. n. 192 del 31/12/2014 (Proroghe di termini previsti da disposizioni legislative).
In particolare, la principale norma dichiarata incostituzionale è l’art. 8, comma 24, citato, il quale testualmente disponeva: “Fermi i limiti assunzionali a legislazione vigente, in relazione all’esigenza urgente e inderogabile di assicurare la funzionalità operativa delle proprie strutture, volte a garantire una efficace attuazione delle misure di contrasto all’evasione di cui alle disposizioni del presente articolo, l’Agenzia delle dogane, l’Agenzia delle entrate e l’Agenzia del territorio sono autorizzate ad espletare procedure concorsuali da completare entro il 31 dicembre 2013 per la copertura delle posizioni dirigenziali vacanti, secondo le modalità di cui all’articolo 1, comma 530, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e all’articolo 2, comma 2, secondo periodo, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni dalla legge 2 dicembre 2005 n. 248. Nelle more dell’espletamento di dette procedure l’Agenzia delle dogane, l’Agenzia delle entrate e l’Agenzia del territorio, salvi gli incarichi già affidati, potranno attribuire incarichi dirigenziali a propri funzionari con la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso. Gli incarichi sono attribuiti con apposita procedura selettiva applicando l’articolo 19, comma 1-bis, del decreto legislativo 30 marzo 2001 n.165 . Ai funzionari cui è conferito l’incarico compete lo stesso trattamento economico dei dirigenti”.
Peraltro, la Corte Costituzionale aveva già affermato, in più di una occasione, che “nessun dubbio può nutrirsi in ordine al fatto che il conferimento di incarichi dirigenziali nell’ambito di un’amministrazione pubblica debba avvenire previo esperimento di un pubblico concorso e che il concorso sia necessario anche nei casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio. Anche il passaggio ad una fascia funzionale superiore comporta l’accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto, pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso” (cfr., sentenze della Corte Costituzionale nn. 194 del 2002, 217 del 2012, 7 del 2011, 150 del 2010 e 293 del 2009).
In conseguenza di ciò, sono decaduti dagli incarichi dirigenziali tutti coloro che erano stati nominati senza un pubblico concorso. Ne è derivato un acceso dibattito in merito ai possibili effetti sulla validità degli atti fiscali emessi dagli stessi, che i Giudici di merito sembrano aver risolto a favore dei contribuenti, fatta eccezione per alcune minoritarie pronunce contrarie.
Le prime pronunce di merito.
Come già evidenziato, la questione scaturisce dunque dalla dichiarazione di incostituzionalità delle succitate norme, che avevano legittimato, nel corso degli anni, il conferimento di incarichi dirigenziali a funzionari privi della relativa qualifica, tramite la mera stipula di contratti a tempo determinato, senza, dunque, l'indizione di un pubblico concorso, con grave violazione dei principi di regolamentazione del rapporto di pubblico impiego.
Volendo correre ai ripari, sia il Governo che l’Agenzia delle entrate hanno sostenuto che gli atti in questione sono assolutamente legittimi e hanno caldamente invitato i contribuenti a non proporre ricorsi facili, in quanto tale scelta avrebbe solo fatto “perdere soldi”.
Tuttavia, la giurisprudenza di merito non si sta mostrando dello stesso avviso. Ormai sono numerose le pronunce dei Giudici di merito che sanciscono la nullità non solo degli avvisi di accertamento, ma anche delle cartelle di pagamento e dei ruoli (cfr, ex multis CTR Milano, sentenza n. 2184/2015; CTP Lecce, sentenze nn. 1789 e 1790 del 2015; CTP Campobasso, sentenza n. 784/2015).
In particolare, la Commissione Tributaria Regionale di Milano, con sentenza n. 2184 del 2015, depositata il 19 maggio 2015, ha affermato tout court che “gli atti impositivi sottoscritti dai c.d. dirigenti decaduti non sono validi” e che “ciò può anche essere sollevato per la prima volta in appello”. Con tale pronuncia, i Giudici meneghini hanno dunque accolto le doglianze del contribuente, che, per la prima volta in appello, aveva sollevato la questione della carenza dei poteri di firma del soggetto delegante la sottoscrizione dell’atto.
I giudici aditi hanno accolto le doglianze del contribuente appellante, a nulla rilevando la richiesta di inammissibilità della domanda nuova avanzata dall’Ufficio, il quale sosteneva altresì la non rilevabilità d’ufficio del vizio in argomento. I Giudici del gravame hanno affermato invece che risulta perfettamente applicabile al processo tributario la Legge n. 241 del 1990, che consente la rilevabilità della nullità de qua in ogni stato e grado del giudizio, persino d’ufficio.
I Giudici milanesi hanno affermato altresì che non è applicabile l’art. 21, comma 2, della medesima legge, che prevede la non annullabilità degli atti amministrativi adottati in violazione di norme sul procedimento o sulla forma, poiché trattasi di atti aventi natura discrezionale e non anche vincolante.
Viene, infine, esclusa l’applicazione dell’istituto del c.d. “funzionario di fatto”, applicabile solo ai casi in cui gli atti viziati, poiché emessi da funzionario non legittimato, siano favorevoli al cittadino.
Dal canto loro, i Giudici della Commissione Tributaria Provinciale di Campobasso hanno ritenuto “ammissibile e necessaria l’integrazione dei motivi di ricorso, ex art. 24 del D. Lgs. 546/92, tutte le volte in cui sia imposta dallo jus superveniens ovvero da una sentenza della Corte Costituzionale che dichiara illegittima una noma decisiva o fondamentale del giudizio, o anche – si legge – da una sentenza della Corte Europea che abbia dichiarato incompatibile la legge applicata con la normativa comunitaria”.
Dunque, i Giudici di merito di Campobasso si discostano da quelli meneghini, in merito alla possibilità che il vizio di sottoscrizione venga rilevato d’ufficio, asserendo che trattasi di un caso di annullabilità e non anche di nullità, che necessita di una esplicita doglianza di parte ricorrente (motivi aggiunti). Infine, essi si conformano ai Giudici meneghini, laddove escludono l’applicabilità della figura del c.d. “funzionario di fatto” sulla base di analoghe argomentazioni.
Occorre altresì evidenziare che le pronunce sulla nullità degli atti fiscali sottoscritti da “falsi” dirigenti non concernono solo gli avvisi di accertamento emessi in tema di imposte sui redditi, ove il vizio è espressamente contemplato dall’art. 42 del D.P.R. 600/73, ma pure altri provvedimenti, quali cartelle di pagamento e relativi ruoli.
Alla luce delle prime pronunce sul tema (nelle quali si legge testualmente “sul punto della nullità degli atti amministrativi firmati dai dirigenti illegittimi, non sembra esservi ombra di dubbio sulla loro caducità”, cfr. CTR Milano citata), deve ritenersi dunque che il provvedimento sottoscritto da un funzionario che non poteva rivestire tale ruolo è affetto da un vizio talmente grave da compromettere, sempre e comunque, la validità dell’atto.
Conclusione.
Sulla base di quanto sopra esposto, appare dunque evidente come, alla luce delle prime pronunce di merito e della più volte citata sentenza della Corte Costituzionale, che – ricordiamolo – ha dichiarato illegittima la prassi, adottata dall’Amministrazione finanziaria, di nominare dirigenti senza pubblico concorso, gli atti sottoscritti (o le deleghe concesse) da uno dei dirigenti “illegittimi” sono affetti da nullità assoluta.
In ogni caso, è altresì noto che il Governo stia cercando di porre rimedio, quanto prima, a tale delicato problema e l’augurio di tutti i contribuenti è che una eventuale nuova legge non sia un espediente per aggirare la pronuncia della Corte Costituzionale e, soprattutto, non sia un “colpo di reni” diretto a sanare, con effetti retroattivi, gli atti illegittimi firmati da dirigenti “decaduti”.
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COSTI ANTIECONOMICI DEDUCIBILI PURCHE' INERENTI
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners - Studio Legale Tributario, da "Altalex" - 3 Marzo 2015
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IL TRUST AUTO-DICHIARATO SCONTA L'IMPOSTA DI DONAZIONE
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners - Studio Legale Tributario, da "Rivista di Diritto Bancario",
L’atto di costituzione del trust “autodichiarato” sconta immediatamente l’imposta di donazione con l’aliquota dell’8%. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con ordinanza del 24 febbraio 2015, n. 3735 (in senso conforme, cfr. Cass. ordinanza del 24 febbraio 2015, n. 3737; Cass. ordinanza del 25 febbraio 2015, n. 3886), che stride irrimediabilmente con il prevalente orientamento della giurisprudenza tributaria di merito (cfr., ex multis CTP Reggio Emilia n. 418/2/14; CTR Milano n. 73/15/12).
Nella pronuncia in commento, i Giudici di Piazza Cavour, nell’esaminare il trattamento impositivo indiretto dell’atto di costituzione del trust, hanno affermato tout court che “l’atto di costituzione del trust con cui il disponente, al fine di rafforzare la propria garanzia patrimoniale a favore di istituti bancari, conferisce in trust i beni immobili di cui è proprietario, nominando se stesso come trustee, sconta l’imposta sulle successioni e donazioni con l’aliquota dell’8%”, con la conseguenza che l’applicazione dell’imposta avviene immediatamente e non è rimanda al momento in cui il trustee (amministratore) distribuirà il patrimonio del trust ai beneficiari.
Ciò, in considerazione di quanto disposto dall’art. 2, comma 47 del D.L. n. 262 del 2006, in virtù del quale “È istituita l'imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione, secondo le disposizioni del testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta sulle successioni e donazioni …”. Secondo la Suprema Corte, da tale norma deriverebbe infatti che “l’imposta è istituita direttamente, ed in sé, sulla costituzione dei vincoli e non già sui trasferimenti di beni e diritti a causa della costituzione di vincoli di destinazione, come, invece, accade per le successioni e donazioni, in relazione alle quali è espressamente evocato il nesso causale”.
La vicenda traeva origine dalla notifica di un avviso di liquidazione per il recupero dell’imposta di donazione con l’aliquota dell’8%, a seguito della registrazione dell’atto di costituzione di un trust autodichiarato, con cui il settlor (disponente) conferiva in trust i beni immobili di cui era proprietario, al fine di rafforzare la propria garanzia patrimoniale a favore di alcuni istituti bancari. Tale atto prevedeva altresì che, al raggiungimento dello scopo principale, il fondo eventualmente residuato sarebbe stato destinato al soddisfacimento dei bisogni e delle esigenze della famiglia del settlor e che, al termine del trust, il beneficiario finale di quanto fosse residuato sarebbe stato il settlor stesso, se in vita, o altrimenti i suoi legittimi eredi.
I Giudici di primo grado rigettavano il ricorso proposto dal contribuente, mentre i Giudici di secondo grado accoglievano l’appello dallo stesso proposto, affermando che “per effetto della costituzione del trust”, il contribuente “non ha beneficiato di arricchimento alcuno, in quanto la segregazione dei beni era intesa esclusivamente alla prestazione di una garanzia. Per conseguenza, ha considerato, non è configurabile il presupposto impositivo dell’imposta sulle donazioni, ossia la liberalità; né è comunque prospettabile, in virtù della costituzione del trust, alcuna capacità contributiva del contribuente, nella qualità di trustee”.
L’Ufficio proponeva pertanto ricorso per cassazione per violazione e falsa applicazione di legge dell’art. 2, comma 47 del D.L. n. 262 del 2006, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., che veniva accolto dalla Suprema Corte, sulla base della considerazione per la quale l’art. 2, comma 47 citato, istituirebbe “l’imposta sulla costituzione di vincolo di destinazione” e che essa “… è un’imposta nuova, accomunata solo per assonanza alla gratuità delle attribuzioni liberali, altrimenti gratuite e successorie … ma conserva connotati peculiari e disomogenei rispetto a quelli dell’imposta classica sulle successioni e sulle donazioni”.
In altri termini, gli ermellini evidenziano come il Legislatore, nel disciplinare la “nuova” imposta sulle donazioni, abbia previsto che essa si applichi anche “sulla costituzione di vincoli di destinazione”, creando, in tal modo, una nuova fattispecie impositiva, diversa da quella relativa alle donazioni o agli atti a titolo gratuito, poiché, mentre l’applicazione dell’imposta di donazione su donazioni e atti a titolo gratuito implica l’esistenza di un trasferimento, l’applicazione dell’imposta di donazione ai vincoli di destinazione prescinde da ogni trasferimento.
Con riferimento al presupposto impositivo dell’imposta sul vincolo di destinazione, la Suprema Corte ha invece affermato che esso è correlato alla “predisposizione del programma di funzionalizzazione del diritto al perseguimento degli obiettivi voluti” e, dunque, lo individua nell’utilità economica che lo scopo del trust persegue. In sintesi, essa sembra affermare che l’utilità economica perseguita dal trust “grava” sul beneficiario finale del trust stesso, può realizzarsi anche a prescindere da un trasferimento e, in questi limiti, può essere fatta oggetto di imposizione.
Per quanto concerne l’aliquota con cui applicare l’imposta di donazione, i Giudici di legittimità optano per quella dell’8%, che sarebbe imposta dalla sua natura residuale, non potendo rinvenire alcun “beneficiario” in rapporto di parentela o affinità con il disponente (sebbene l’atto istitutivo del trust prevedesse che il fondo residuato dopo il raggiungimento dello scopo principale del trust venisse destinato al soddisfacimento dei bisogni e delle esigenze della famiglia del disponente e che, al termine del trust, il beneficiario finale fosse il disponente stesso o i suoi eredi, ove egli fosse deceduto).
La Corte di Cassazione, pur con argomentazioni differenti, sembra giungere alle medesime conclusioni cui era pervenuta l’Agenzia delle entrate, la quale, con circolare n. 3/2008, aveva precisato che “anche nel trust autodichiarato, in cui il settlor assume le funzioni di trustee, l’attribuzione dei beni in trust, pur in assenza di formali effetti traslativi, deve essere assoggettato all’imposta sulle successioni e donazioni”.
La soluzione cui pervengono i Giudici di Piazza Cavour stride irrimediabilmente con il prevalente orientamento della giurisprudenza tributaria di merito, la quale, ricostruendo l’istituto del trust come donazione “modale” o come donazione sottoposta a condizione sospensiva, sostiene che la costituzione del vincolo di destinazione non sarebbe da considerare quale manifestazione di capacità contributiva, in quanto l’intestazione dei beni al trustee sarebbe provvisoria e temporanea, non incrementerebbe il suo patrimonio e sarebbe una mera “situazione-ponte” in attesa della definitiva assegnazione dei beni ai beneficiari.
Alla luce di quanto sopra esposto, appare dunque evidente come, secondo la Suprema Corte, il Legislatore, disponendo che l’imposta sulle successioni e donazioni si applica all’istituzione del vincolo di destinazione, abbia inequivocabilmente attratto nell’area applicativa della norma tutti i regolamenti capaci di produrlo, compreso il trust.
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NULLA LA CARTELLA DI PAGAMENTO CON MOTIVAZIONE EQUIVOCA
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners - Studio Legale Tributario, da "Rivista di Diritto Bancario", 18 febbraio 2015.
È nulla la cartella di pagamento che contiene imprecisioni ed errori tali da non consentire al contribuente la verifica dell’iter logico-giuridico seguito dall’Amministrazione finanziaria per determinare l’ammontare dell’imposta. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza del 4 febbraio 2015, n. 1952, conformemente al prevalente orientamento della giurisprudenza tributaria di legittimità (cfr., ex multis Cass. n. 374/2015; Cass. n. 8934/2014; Cass. n. 20211/2013; Cass. n. 4516/2012).
Con la pronuncia in commento, i Giudici di Piazza Cavour, intervenendo sulla nota questione dell’obbligo di motivazione degli atti impositivi notificati al contribuente dall’Agenzia delle entrate o dal Concessionario della riscossione, hanno affermato tout court che la cartella di pagamento è nulla, qualora non sia possibile verificare l’iter logico-giuridico su cui essa si basa, in quanto “l’equivocità della motivazione finisce per rendere la cartella di pagamento ‘inammissibilmente generica’ e, quindi, utilizzabile per qualsiasi fattispecie”.
Ciò, in considerazione di quanto disposto dall’art. 7, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente - peraltro significativamente intitolato, come rilevato dalla stessa Suprema Corte, "Chiarezza e motivazione degli atti" -, il quale statuisce che "gli atti dell'amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall'articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione".
La vicenda traeva origine dalla notifica di una cartella di pagamento emessa a seguito di controllo automatizzato, ex art. 36-bis del D.P.R. 600/73, con cui l’Ufficio procedeva alla rettifica della liquidazione operata sul modello 770/2001 da un sostituto d’imposta per redditi soggetti a tassazione separata. Il contribuente proponeva ricorso, eccependo la nullità della cartella di pagamento per difetto di motivazione, in quanto non risultava segnatamente indicato con certezza quale organo avesse materialmente operato il pagamento, quali fossero le annualità cui fare riferimento per il calcolo dell’imposta, quali i criteri in base ai quali era stata applicata l’aliquota media e quali le modalità di calcolo utilizzate.
I Giudici di primo grado accoglievano il ricorso, dichiarando la nullità della cartella impugnata per difetto di motivazione, e successivamente tale decisione veniva confermata anche dai Giudici di appello, sulla base della considerazione per la quale “erano state iscritte a ruolo imposte in misura superiore rispetto a quelle dichiarate e liquidate, non si evincessero con certezza chi fossero stati i sostituti di imposta che avevano proceduto alla presentazione del modello 770/2001, il periodo assoggettato a controllo, le annualità prese a riferimento per il calcolo dell’imposta, l’aliquota e le modalità di calcolo”.
L’Ufficio proponeva pertanto ricorso per cassazione per violazione di legge dell’art. 7, Legge n. 212/2000 e dell’art. 3, D.P.R. n. 602/1973, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., che veniva rigettato dalla Suprema Corte poiché la cartella di pagamento presentava “imprecisioni ed errori tali da non consentire al contribuente la verifica dell’iter logico-giuridico seguito dall’Agenzia delle Entrate o dal Concessionario della riscossione per determinare l’ammontare dell’imposta”.
In particolare, gli ermellini evidenziavano come, “oltre al dato decisivo dell’errore nell’indicazione delle annualità prese in considerazione per determinare l’aliquota media del biennio precedente …”, anche “l’equivocità della motivazione” della cartella aveva contribuito a renderla “inammissibilmente generica”, nella parte in cui si legge che “i dati sono stati desunti da dati esposti dal sostituto di imposta … e/o nel quadro RM del modello unico 2001 o nel quadro F del modello 730/2001”, tanto da lasciare al contribuente - “che per molteplici ragioni non potrebbe più avere a disposizione copia o riferimento del modello a suo tempo presentato, né può essere costretto ad ulteriori attività di ricerca per verificare la pretesa dell’ufficio impositore” - “l’incertezza circa il suo precedente comportamento”.
La soluzione cui pervengono i Giudici di Piazza Cavour consolida quel filone giurisprudenziale secondo cui è nulla la cartella di pagamento la cui motivazione sia equivoca (rectius, generica) e, quindi, tale da non consentire al contribuente la verifica dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'Amministrazione finanziaria.
Invero, la cartella di pagamento, quale tipico provvedimento esplicativo della volontà dell’Amministrazione finanziaria, è destinata ad incidere in via immediata ed unilaterale sulla sfera giuridica di un soggetto privato e, come tale, è necessario, ex lege, che la medesima sia dotata del contenuto motivazionale atto a fornire e garantire l’intelligibilità della pretesa tributaria, al fine di rendere edotto il contribuente dei motivi di fatto e di diritto, in base ai quali l’Ufficio ha avanzato la pretesa tributaria, così come previsto dall’art. 3, della Legge n. 241 del 1990.
Alla luce dei suesposti principi, appare dunque evidente come l’obbligo di indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'Amministrazione finanziaria sia ineludibile e, soprattutto, non surrogabile da una generica, quanto equivoca, motivazione, nel pieno rispetto del diritto di difesa del contribuente, che è costituzionalmente garantito dall’art. 24.
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STRUMENTI DI PIANIFICAZIONE E PROTEZIONE PATRIMONIALE
Collaborazione alla redazione del manuale “Strumenti di pianificazione e protezione patrimoniale”, Ipsoa, 18 novembre 2013.
La pratica professionale ha individuato diversi strumenti per tutelare i patrimoni personali dalle possibili “aggressioni”, non solo dovute a fenomeni esterni quali creditori, pubblici e privati, ma anche derivanti da fenomeni interni alla vita della persona fisica quali crisi familiari, passaggi generazionali, etc.
La pianificazione patrimoniale rappresenta un percorso virtuoso da attuare attraverso l’uso congiunto e sistematico di diversi istituti del diritto civile, da individuare in funzione delle particolari esigenze del soggetto interessato. La fattispecie civilistica, poi, deve essere armonizzata e resa compatibile con la norma fiscale, al fine di evitare inutili aggravi economici che potrebbero rendere meno efficiente la strategia disegnata. Il tutto, infine, deve essere reso coerente con la stringente normativa penale e la disciplina antiriciclaggio.
Il testo si propone di affrontare, in un contesto operativo ma all’interno di un inquadramento sistematico, tutti gli istituti tipici per adottare una efficace strategia di pianificazione e protezione patrimoniale, seguendone le evoluzioni interpretative della prassi e della giurisprudenza ed analizzandoli dal punto di vista fiscale. L’analisi della disciplina penale e di quella antiriciclaggio completa il quadro e mette in condizione il lettore di avere una panoramica completa ed esaustiva di tutti gli elementi
OPERAZIONE ANTIECONOMICA: NON BASTA LA CONTABILITA' REGOLARE
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners – Studio Legale Tributario, da IPSOA Quotidiano, 19 luglio 2013.
Qualora l’Amministrazione finanziaria contesti l’antieconomicità di un’operazione, è onere del contribuente dimostrare la liceità fiscale della stessa ed il Giudice tributario non può, al riguardo, limitarsi a constatare la regolarità “cartacea” della documentazione contabile. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione, con sentenza del 14 giugno 2013, n. 14941, conformemente al prevalente orientamento della giurisprudenza tributaria di legittimità (cfr. Cass., sentenza 18 maggio 2012, n. 7871; Cass., sentenza 16 gennaio 2009, n. 951; Cass., sentenza 18 maggio 2007, n. 11599).
Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte, intervenendo sulla nota questione della ravvisabilità di un indice di evasione e/o di elusione in caso di acquisto di beni fuori mercato, ha affermato tout court che “il contribuente imprenditore commerciale, al quale sia contestata dall'Erario l’antieconomicità di un’operazione posta in essere, è gravato dall’onere di provare la liceità fiscale dell’operazione ed il Giudice tributario non può, al riguardo, limitarsi a constatarne la regolarità cartacea. Infatti, qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente non attendibile, in quanto contrastante con i criteri della ragionevolezza, riguardo all'antieconomicità del comportamento del contribuente, è consentito al Fisco dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere minori costi
utilizzando presunzioni semplici ed obiettivi parametri di riferimento, con conseguente spostamento dell'onere della prova a carico del contribuente”.
La pronuncia consolida il filone giurisprudenziale inaugurato dalla Suprema Corte con sentenza del 18 maggio 2007, n. 11599, secondo cui l’onere di dimostrare la liceità fiscale di un’operazione, di cui l’Amministrazione finanziaria contesti l’antieconomicità, posta in essere da un contribuente che sia imprenditore commerciale spetta a quest’ultimo. A tal fine, non è sufficiente la regolare tenuta della contabilità per contrastare la contestazione di antieconomicità dell’operazione, ben potendo il Fisco dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate nonché desumere minori costi utilizzando presunzioni semplici e obiettivi parametri di riferimento, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente.
Ne consegue che, una volta specificati gli indici di non attendibilità dei dati relativi ad alcune poste e denunciata la loro astratta idoneità a rappresentare una diversa capacità contributiva, null’altro il Fisco è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento logico fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, soprattutto in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse, senza che si possa invocare l’apparente regolarità contrattuale e contabile, perché proprio una tale condotta è di regola alla base di documenti emessi per operazioni di valore di gran
lunga eccedente quello effettivo.
L’individuazione di comportamenti considerati dai verificatori fiscali come “non rispondenti” ai criteri di economicità, di norma utilizzati quali “bussola” per le scelte d’impresa, legittimerebbe pertanto la ravvisabilità di un indice di evasione o, perlomeno, di elusione, in quanto il raggiungimento di un utile economico costituisce la naturale finalità della gestione di un’attività d’impresa, e, quindi, alla luce del principio espresso dalla Suprema Corte, un ribaltamento dell’onere della prova sul contribuente. L’Amministrazione finanziaria non è tenuta dunque a provare alcunché se non quanto emerge dal procedimento accertativo, gravando invece sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse.
La pronuncia dei Giudici di Piazza Cavour si pone in contrasto con il diverso orientamento della medesima giurisprudenza di legittimità (Cass., sentenza 10 dicembre 2010, n. 24957; Cass., sentenza 9 maggio 2002, n. 6599), che nega tout court, adottando una “diversa” linea interpretativa - favorevole ai contribuenti - il potere di sindacabilità delle scelte imprenditoriali. Tale potere troverebbe la propria fonte normativa nell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, che ne definisce le particolari ipotesi di applicazione. Al di fuori di tali ipotesi, a parere dello scrivente, non sarebbe pertanto possibile, per l’Amministrazione finanziaria, arrogarsi il diritto di interferire arbitrariamente nelle scelte d’impresa.
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GLI STUDI DI SETTORE RESTANO PRESUNZIONI SEMPLICI
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners – Studio Legale Tributario, da IPSOA Quotidiano, 8 luglio 2013
Le risultanze degli studi di settore hanno una natura meramente presuntiva e rappresentano esclusivamente un indicatore che evidenzia un possibile comportamento illecito del contribuente. La gravità, la precisione e la concordanza possono derivare unicamente dagli effetti del contraddittorio che l’Ufficio deve attivare obbligatoriamente a pena di nullità dell’accertamento.
È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza del 7 giugno 2013, n. 14492, conformemente al prevalente orientamento della giurisprudenza tributaria di legittimità (Cass., sentenza 31 maggio 2013, n. 13773; Cass., sentenza 10 aprile 2013, n. 8706; Cass. SS.UU., sentenza 18 dicembre 2009, n. 26635).
Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte ha affermato tout court che il giudice tributario, qualora ritenga raggiunta la prova circa l’attendibilità dei redditi dichiarati dal contribuente, è obbligato a motivare adeguatamente il proprio convincimento, dovendo valutare analiticamente sia gli elementi addotti dalla parte per giustificare il contestato scostamento dalle medie di settore, sia tenere in considerazione gli ulteriori elementi di anomalia che sono stati indicati dall’Agenzia delle Entrate a conferma delle risultanze dell’indagine ricostruttiva standardizzata.
Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate notificava un avviso di accertamento con cui recuperava a tassazione ai fini IVA, IRAP e IRPEF presunti ricavi in nero relativi all’anno d’imposta 2003, in considerazione di un evidente scostamento tra quanto dichiarato dal contribuente rispetto allo studio di settore. Il contribuente ricorreva avverso l’atto impositivo ricevuto alla Commissione Tributaria Provinciale che accoglieva le doglianze del contribuente. L’Agenzia delle Entrate, soccombente in primo grado, impugnava la sentenza innanzi alla Commissione Tributaria Regionale che, in riforma della decisione emessa dai giudici di prime cure, annullava il predetto
atto impositivo, ritenendolo unicamente fondato sul contestato scostamento.
A questo punto, l’Ufficio portava la vicenda all’attenzione della Suprema Corte, la quale ha ritenuto che i giudici della Commissione Tributaria Regionale abbiano applicato erroneamente i principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite (cfr. Cass., sentenza del 18 dicembre 2009, n. 26635) in tema di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri e degli studi di
settore.
Secondo i Giudici di Piazza Cavour, alla luce dell’insegnamento del massimo consesso, il giudice del merito avrebbe dovuto valutare analiticamente, da un lato, gli elementi addotti dalla parte privata per giustificare il contestato scostamento dalle medie di settore, dall’altro, tenere in considerazione gli ulteriori elementi di anomalia indicati dall’Ufficio, a conferma dell’indagine ricostruttiva standardizzata. “Al contrario – scrivono gli Ermellini –, risulta dalla motivazione della pronuncia impugnata che il giudice del merito ha motivato il proprio convincimento con considerazioni vaghe e di puro stile, del tutto elusive delle concrete tematiche poste dalle parti e peculiarmente dei dati fattuali sui quali l’accertamento risulta fondato ovvero sui quali sono fondate le contestazioni di parte
contribuente”.
Ne consegue che l’accertamento emesso in base allo scostamento tra reddito dichiarato e reddito atteso dagli studi di settore è considerato presunzione semplice, in ossequio all’art. 2729 c.c., secondo cui “le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti” e, quindi, le fattispecie non stabilite dalla legge sono rimesse alla valutazione del giudice di merito (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 105/2003).
Gli studi di settore rappresentano esclusivamente degli indicatori di una possibile anomalia fiscale: i requisiti di gravità, precisione e concordanza di tali presunzioni non sono determinati ex lege dal semplice scostamento del reddito dichiarato rispetto a quello rideterminato dal software Gerico.
La Suprema Corte evidenzia quindi – ancora una volta – come sia necessario il contradditorio endoprocedimentale, quale elemento determinante per adeguare alla realtà economica del singolo contribuente la mera ipotesi di evasione rilevata dallo studio di settore. In sede di contradditorio il contribuente ha “l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame”. Mentre è obbligo dell’Ufficio motivare con adeguatezza l’avviso di accertamento basato sugli studi di settore, evitando l’automatismo dell’accertamento in base allo scostamento, ed integrare la motivazione stessa “con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto”, evidenziando le ragioni per cui sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.
La pronuncia consolida il filone giurisprudenziale inaugurato dalle Sezioni Unite con sentenza del 18 dicembre 2009, n. 26635, secondo cui “gli studi di settore costituiscono indici rilevatori di possibili antinomie nel comportamento fiscale del contribuente sotto il profilo della divergenza dell’ammontare dei ricavi rispetto all’elaborazione statistica che determina un livello definito “normale” di redditività. Peraltro, in ossequio al principio di capacità contributiva, lo scostamento deve assumere connotato di grave incongruenza e, conseguentemente, l’Amministrazione finanziaria è tenuta alla verifica in contraddittorio della situazione economica del contribuente al
fine di accertare la compatibilità tra l’effettiva capacità reddituale del contribuente e gli elementi desumibili dagli studi di settore”.
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