CREDITO D'IMPOSTA PER LE ATTIVITÀ DI RICERCA E SVILUPPO
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
La Legge di Stabilità 2015 ha introdotto per tutte le imprese che effettuano investimenti in attività di ricerca e sviluppo la possibilità di ottenere un’agevolazione fiscale sotto forma di credito di imposta per gli anni 2015, 2016, 2017, 2018 e 2019. Tale agevolazione è stata oggetto di recenti chiarimenti con la circolare n. 5/E del 16 marzo 2016 dell’Agenzia delle Entrate.
Il credito d’imposta per attività di ricerca e sviluppo era già stato introdotto nel 2013 con il decreto legge n.145, modificato poi nel 2014 con la legge n. 9 del 21 febbraio. Tale misura, però, non ha trovato attuazione per mancanza di copertura finanziaria. Per tale ragione è stato realizzato un nuovo intervento contenuto nella Legge di Stabilità 2015 volto a rendere più fruibile tale strumento.
Il credito è riconosciuto a tutte le imprese (inclusi i consorzi e le reti di imprese), indipendentemente dalla forma giuridica, dal settore di attività, dal regime contabile adottato e senza limiti di fatturato. Possono beneficiarne anche le stabili organizzazioni italiane di imprese non residenti. Il credito di imposta spetta nella misura del 25 per cento delle spese di ricerca e sviluppo incrementali rispetto alla media delle medesime spese sostenute nei tre periodi di imposta precedenti a quello in corso al 31 dicembre 2015. La misura del credito sale al 50 per cento qualora le spese di ricerca e sviluppo siano riferibili a personale altamente qualificato ed a spese per contratti c.d. “extra-muros” (ovvero, contratti con Università, enti di ricerca e altre imprese, comprese le “start-up” innovative).
Il credito spetta fino ad un importo massimo annuale di 5 milioni di euro, a condizione che siano sostenute spese per attività di ricerca e sviluppo almeno pari ad euro 30.000. È importante evidenziare che il credito di imposta è cumulabile con il c.d. “patent box”, altra misura agevolativa con il fine di incentivare le attività di ricerca e sviluppo, introdotta con la Legge di Stabilità 2015. Infatti, il Patent Box prevede una detassazione dei ricavi prodotti dai beni intangibili, creati anche attraverso i costi di ricerca che generano il credito di imposta in esame.
Quindi, il credito in disamina è certamente una grande opportunità per la generalità delle imprese che svolgono attività di ricerca e sviluppo nell'ampia accezione prevista dal decreto attuativo. L’agevolazione è resa ancor più appetibile, come detto, grazie alla cumulabilità, nonché alla sinergia con il Patent Box, evidenziata dalla Circolare. È quindi cruciale attivare tempestivamente le verifiche in azienda in modo da documentare quanto prima le spese eleggibili per il credito relativo al 2015. Inoltre, è importante che gli operatori che hanno presentato istanza di accordo preventivo per il Patent Box effettuino le analisi finalizzate alla raccolta di documentazione da inviare all'Agenzia cercando di operare in maniera sinergica al fine di selezionare dati ed informazioni rilevanti per entrambe le agevolazioni.
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NUOVI CRITERI PER L'INDIVIDUAZIONE DELLE "CFC"
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
Con la nuova modifica dell’art. 167 del D.P.R. 917/1986 (c.d. TUIR), ad opera della Legge di Stabilità 2016, la disciplina delle Controlled Foreign Companies (c.d. CFC) viene ulteriormente innovata, con la finalità dichiarata di razionalizzarla e completarla. La modifica di maggiore interesse riguarda indubbiamente i criteri per l’individuazione degli Stati o territori a fiscalità privilegiata: viene, infatti, espunto qualsiasi riferimento alla lista dei Paesi c.d. black list (D.M. 21 novembre 2001), rinviando ad un criterio oggettivo, definito in via normativa, fondato sul livello nominale di tassazione nella giurisdizione estera. Tale criterio, oltre che rilevare per l’applicazione della disciplina delle CFC, è rilevante anche per l’ambito territoriale delle contigue discipline degli utili da società localizzate in Paesi a regime fiscale privilegiato (artt. 47, 68, 86, 87 e 89 del TUIR) e della “branch exemption” (art. 168-ter del TUIR).
Dunque, a distanza di pochi mesi dalle recenti novità introdotte dal Decreto Internazionalizzazione, la Legge di Stabilità 2016 ha introdotto nuove modifiche per l’individuazione delle c.d. tax haven jurisdictions:
- al comma 1 dell’art. 167 viene espunto il riferimento al Decreto o al Provvedimento con i quali identificare le giurisdizioni o i regimi speciali fiscalmente privilegiati, sostituendolo con un più generico richiamo agli Stati o territori identificati in base ai criteri definiti nel novellato comma 4 (si veda il punto successivo) “diversi da quelli appartenenti all'Unione Europea (“UE”) ovvero da quelli appartenenti allo Spazio Economico Europeo (“SEE”) con i quali l’Italia abbia stipulato un accordo che assicuri un effettivo scambio di informazioni”;
- al comma 4 dell’art. 167 del TUIR viene rimosso qualsiasi riferimento alla black list di cui al D.M. 21.11.2001 e ai regimi fiscali speciali da individuarsi in modo non tassativo con Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate, sostituendolo con un laconico riferimento ai “regimi fiscali, anche speciali, di Stati o territori […] laddove il livello nominale di tassazione risulti inferiore al 50% di quello applicabile in Italia”;
- al comma 8-bis dell’art. 167 del TUIR viene inserita una specificazione del dettato normativo, al fine di includere tra i Paesi cui si applica la disciplina delle CFC white list gli “Stati appartenenti all’UE ovvero quelli aderenti allo SEE con i quali l’Italia abbia stipulato un accordo che assicuri un effettivo scambio di informazioni”.
Dalle modifiche sopra elencate ne discendono alcune conseguenze di rilievo. Innanzitutto, l’individuazione dei regimi fiscali paradisiaci sarà affidata ad una verifica caso per caso del livello di tassazione estero. Verifica evidentemente più onerosa rispetto alla più agevole consultazione di una black list di emanazione ministeriale. Va, tuttavia, apprezzata la notevole semplificazione rappresentata dal confronto tra livelli nominali e non effettivi di tassazione, che dovrebbe inoltre agevolare i contribuenti italiani, soggetti, come noto, a livelli di tassazione effettiva ben superiori a quella nominale. Nel silenzio della norma, permane tuttavia su tale punto il dubbio circa la rilevanza ai fini dell’individuazione del livello di tassazione nominale domestico della sola IRES o anche all’IRAP.
Possibili criticità si pongono con riferimento all'individuazione dei regimi fiscali speciali che consentono un livello di tassazione nominale inferiore al 50% di quello applicato in Italia. Prima delle modifiche in commento, una elencazione non tassativa di tali regimi avrebbe dovuto essere fornita da un Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate (mai pubblicato). Si pone pertanto la questione di verificare il livello di tassazione nominale applicabile alle controllate estere, anche se residenti in giurisdizioni che prima facie sarebbero escluse in virtù di un livello di tassazione generale nominale superiore al 50% di quello italiano. A tale scopo potrebbe essere utile fare riferimento all'abrogato articolo 3 del D.M. 21.11.2011, il quale individuava le giurisdizioni black list limitatamente a determinate tipologie societarie e settori. In secondo luogo, viene meno la rilevanza, ai fini dell’individuazione delle giurisdizioni a regime fiscale privilegiato, della presenza di un adeguato scambio di informazioni con il paese estero. Ne discende che alcune giurisdizioni prima incluse nella black list in quanto non collaborative, saranno ora da escludere qualora la tassazione nominale sia superiore al 50% di quella italiana (e.g. isole Barbados). Vengono, inoltre, escluse ex lege, ai fini del regime CFC black list, le giurisdizioni della UE e quelle dello SEE con cui è in vigore un accordo per lo scambio di informazioni (ad oggi, Norvegia e Islanda).
Alcuni interrogativi si pongono, invece, con riguardo all'effettuazione del tax rate test per le controllate residenti in giurisdizioni non black list. Per effetto della specificazione apportata nel comma 8-bis dell’articolo 167 del TUIR saranno soggette a tale verifica anche le controllate residenti in Paesi comunitari. Come è stato osservato in dottrina, tale disposizione potrebbe essere passibile di censure in ambito comunitario qualora integri un ostacolo alla libertà di stabilimento (artt. 49-55 del TFUE). Peraltro, a causa della mancata emanazione del Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate che ai sensi del novellato comma 8-bis, lett. b) dell’art 167 del TUIR avrebbe dovuto individuare i criteri per determinare con modalità semplificate il calcolo del livello di tassazione effettivo, lo svolgimento del tax rate test continua a rappresentare un esercizio alquanto complesso.
Come osservato sopra, le modifiche introdotte dalla Legge di Stabilità 2016 esplicheranno i loro effetti a decorrere dall'esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015.
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NUOVE OPPORTUNITÀ DI DEFINIZIONE PREVENTIVA DELLE CONTROVERSIE TRIBUTARIE
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
La recente riforma della disciplina del diritto d’interpello promette di trasformare l’interpello nello strumento chiave per definire, in via anticipata, le cause di conflittualità con l’Amministrazione finanziaria, nonché di fornire maggiori garanzie e tutele ai contribuenti, inclusi coloro che decidono di non uniformarsi all'eventuale parere sfavorevole reso dalle autorità.
La riforma è stata attuata per mezzo del D.Lgs. 156/2015 che ha integralmente riscritto l’art. 11, Legge 212/2000. Con la circolare n. 9/E del 1° aprile 2016, l’Agenzia delle Entrate è intervenuta nel fornire una serie di indicazioni.
Le principali novità sono sintetizzabili come segue:
1) l’istanza di interpello può essere presentata anche da contribuenti non residenti, da sostituti di imposta e i responsabili di imposta;
2) viene abrogato «l’interpello obbligatorio», fatta eccezione per il c.d. interpello disapplicativo. Viene inoltre normativamente prevista la generale non impugnabilità delle risposte agli interpelli;
3) si applica la regola del silenzio-assenso per tutte le tipologie di interpelli;
4) le istanze devono essere presentate prima della scadenza dei termini presentazione della dichiarazione fiscale, ovvero, dell’assolvimento dell’obbligo tributario oggetto dell’interpello;
5) vengono individuate cinque tipologie di interpello, in specie:
i. L’interpello ordinario, con cui si chiede un parere all'Amministrazione finanziaria in presenza di obiettive condizioni di incertezza sull'interpretazione delle disposizioni tributarie, in relazione alla loro applicazione a casi concreti e personali;
ii. L’interpello qualificatorio, con cui si chiede un parere in ordine alla corretta qualificazione della fattispecie quando sussistono specifiche e obiettive condizioni di incertezza (ad esempio, valutazione della sussistenza di un’azienda o di una stabile organizzazione ai fini dell’esenzione degli utili e delle perdite delle stabili organizzazioni di imprese residenti di cui al nuovo art. 168 TUIR) e sempre che l’istanza sia finalizzata a ottenere chiarimenti sull'applicazione di disposizioni tributarie;
iii. L’interpello probatorio, con cui si chiede un parere sulla sussistenza delle condizioni o sulla idoneità degli elementi probatori offerti dal contribuente ai fini dell’adozione di un determinato regime fiscale. In questa categoria di interpello rientrano diverse tipologie di istanze già presenti nell'ordinamento, quali, ad esempio, le istanze di interpello per le società di comodo; le istanze per il riconoscimento del beneficio ACE.
v. L’interpello anti-abuso con cui si chiede all'Amministrazione se le operazioni che si intende realizzare costituiscano fattispecie di abuso del diritto;
v. l’interpello disapplicativo (unica categoria di interpello obbligatorio rimasta) che consente al contribuente di richiedere un parere in ordine alla sussistenza delle condizioni che legittimano la disapplicazione di norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive.
L’Amministrazione finanziaria deve rispondere entro 90 giorni per gli interpelli ordinari e qualificatori, 120 giorni per tutte le altre tipologie. In assenza di risposta, si applica il silenzio-assenso. Nel caso di richiesta da parte dell’Amministrazione di documentazione integrativa –possibile una sola volta nel corso dell’istruttoria– i termini si allungano, rispettivamente, di 60 giorni e di 90 giorni.
Le risposte agli interpelli (sia quelle espresse che quelle tacite) vincolano l’Amministrazione finanziaria. In tal senso, eventuali atti emanati in difformità dai pareri (favorevoli alla tesi del contribuente) sono nulli.
Al fine di garantire una maggiore uniformità nelle risposte agli interpelli la competenza è attribuita alle Direzioni regionali, salve le ipotesi espressamente attribuite alla competenza delle Direzioni centrali dal provvedimento. All'Amministrazione finanziaria resta la facoltà di modificare il proprio parere, ma la modifica deve essere motivata (ad esempio, modifica degli orientamenti della giurisprudenza). Tale modifica, inoltre, può avere effetto solo con riferimento agli atti futuri del contribuente.
In caso di interpello disapplicativo (di norme antielusive), ove l’Amministrazione finanziaria intenda modificare il proprio orientamento, essa deve preventivamente interpellare il contribuente per chiedere chiarimenti. Nel caso in cui l’Amministrazione ritenga tali chiarimenti non adeguati e/o insufficienti, l’eventuale atto di accertamento, deve contenere una specifica motivazione in merito alle risposte rese dal contribuente.
Il Legislatore ha introdotto un obbligo di segnalazione in dichiarazione, finalizzato a consentire la “disclosure” del contribuente che non abbia presentato istanza di interpello o che, pur avendola presentata, non si sia adeguato alla risposta negativa fornita dall'Amministrazione. La segnalazione riguarda:
- la semplice circostanza della avvenuta presentazione dell’istanza o meno;
- in altri casi, più puntuali indicazioni previste direttamente dalla norma;
- in altri ancora, oltre alla circostanza che sia stata o meno presentata l’istanza di interpello, una serie di ulteriori elementi informativi individuati dal provvedimento di approvazione del Modello UNICO 2016.
Il nuovo comma 7-ter dell’articolo 11 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, prevede che la mancata presentazione dell’istanza di interpello, ove obbligatoria, sia punita con una sanzione amministrativa da Euro 2.000 ad euro 21.000. Tale sanzione è raddoppiata, sempre in caso di omessa presentazione dell’istanza di interpello, nell'ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria disconosca la disapplicazione della norma elusiva autonomamente eseguita dal contribuente.
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LA SPV PUÒ DEDURRE GLI INTERESSI PASSIVI SOSTENUTI PER ACQUISIRE LA SOCIETÀ TARGET
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
Con la circolare n. 6/E del 30 marzo 2016, l’Agenzia delle Entrate ha confermato la deducibilità degli interessi passivi relativi ai debiti contratti dall’SPV nelle operazioni di merger levereged buy-out, c.d. MLBO, ossia nelle operazioni mediante le quali l'acquisizione di un’azienda o di una partecipazione in una società c.d. target avviene tramite un’apposita società veicolo, c.d. Special Purpose Vehicle - SPV, che viene finanziata in parte mediante capitale proprio ed in parte mediante prestiti onerosi. La deduzione degli interessi passivi si trasferisce dal reddito imponibile della SPV a quello della società risultante dalla fusione (MergerCo).
Nelle operazioni di levereged buy-out, c.d. LBO, non avviene invece la fusione tra SPV e target; in tal caso, gli oneri finanziari connessi all'indebitamento sono compensati tra SPV e target mediante l’esercizio dell’opzione per il consolidato fiscale (ex artt. 117 e 129 TUIR). La SPV effettua il pagamento degli interessi e rimborsa le quote del prestito grazie alla distribuzione di dividendi da parte della target.
In passato, la deducibilità degli interessi passivi sostenuti dall’SPV (in caso di LBO) o dalla MergerCo (in caso di MLBO) è stata oggetto di contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria, sulla base del principio di inerenza (ex art. 109, comma 5, TUIR): infatti, l’Amministrazione finanziaria riteneva che gli interessi passivi e gli altri oneri accessori al finanziamento della SPV non fossero deducibili dal reddito imponibile dell’SPV, in quanto sostenuti a vantaggio esclusivo del socio della stessa.
Con la circolare in oggetto, l’Agenzia delle entrate afferma invece che gli interessi passivi relativi a prestiti contratti dalla SPV per l’acquisto di partecipazioni sono, in linea di principio, funzionali all'acquisizione della target, sia nell'ipotesi di fusione (MLBO), sia nell'ipotesi in cui gli interessi vengano compensati mediante l’opzione per il consolidato fiscale (LBO).
Conseguentemente, gli interessi passivi derivanti da operazioni di LBO o di MLBO devono essere considerati inerenti e quindi deducibili (pur nei limiti di quanto previsto dall'art. 96 del TUIR e dalle regole relative al transfer pricing, ove applicabili).
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LA SPV PUÒ DEDURRE GLI INTERESSI PASSIVI SOSTENUTI PER ACQUISIRE LA SOCIETÀ TARGET
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
Con la circolare n. 6/E del 30 marzo 2016, l’Agenzia delle Entrate ha confermato la deducibilità degli interessi passivi relativi ai debiti contratti dall’SPV nelle operazioni di merger levereged buy-out, c.d. MLBO, ossia nelle operazioni mediante le quali l'acquisizione di un’azienda o di una partecipazione in una società c.d. target avviene tramite un’apposita società veicolo, c.d. Special Purpose Vehicle - SPV, che viene finanziata in parte mediante capitale proprio ed in parte mediante prestiti onerosi. La deduzione degli interessi passivi si trasferisce dal reddito imponibile della SPV a quello della società risultante dalla fusione (MergerCo).
Nelle operazioni di levereged buy-out, c.d. LBO, non avviene invece la fusione tra SPV e target; in tal caso, gli oneri finanziari connessi all'indebitamento sono compensati tra SPV e target mediante l’esercizio dell’opzione per il consolidato fiscale (ex artt. 117 e 129 TUIR). La SPV effettua il pagamento degli interessi e rimborsa le quote del prestito grazie alla distribuzione di dividendi da parte della target.
In passato, la deducibilità degli interessi passivi sostenuti dall’SPV (in caso di LBO) o dalla MergerCo (in caso di MLBO) è stata oggetto di contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria, sulla base del principio di inerenza (ex art. 109, comma 5, TUIR): infatti, l’Amministrazione finanziaria riteneva che gli interessi passivi e gli altri oneri accessori al finanziamento della SPV non fossero deducibili dal reddito imponibile dell’SPV, in quanto sostenuti a vantaggio esclusivo del socio della stessa.
Con la circolare in oggetto, l’Agenzia delle entrate afferma invece che gli interessi passivi relativi a prestiti contratti dalla SPV per l’acquisto di partecipazioni sono, in linea di principio, funzionali all'acquisizione della target, sia nell'ipotesi di fusione (MLBO), sia nell'ipotesi in cui gli interessi vengano compensati mediante l’opzione per il consolidato fiscale (LBO).
Conseguentemente, gli interessi passivi derivanti da operazioni di LBO o di MLBO devono essere considerati inerenti e quindi deducibili (pur nei limiti di quanto previsto dall'art. 96 del TUIR e dalle regole relative al transfer pricing, ove applicabili).
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RADDOPPIO DEI TERMINI SOLO SE LA DENUNCIA PENALE È PRESENTATA ENTRO L'ORDINARIO TERMINE DECADENZIALE
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
A prescindere da quando l’accertamento è stato notificato, la denuncia penale va presentata entro l’ordinario termine decadenziale per l’accertamento stesso, affinché possa sussistere il raddoppio dei termini di decadenza dal potere di accertamento per violazioni penali.
È questo il dirompente principio sancito dalla Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia, con la sentenza n. 90 del 4 aprile 2016. Ciò, sulla base della considerazione per la quale la Legge 208/2015 ha abrogato implicitamente la disciplina transitoria contenuta nel D.Lgs. 128/2015.
Come noto, l'art. 57, comma 3 del D.P.R. 633/1972, così come modificato dal D.Lgs. 128/2015, dispone espressamente che “Il raddoppio non opera qualora la denuncia da parte dell'Amministrazione finanziaria, in cui è ricompresa la Guardia di finanza, sia presentata o trasmessa oltre la scadenza ordinaria dei termini di cui ai commi precedenti”.
Tuttavia, per salvare gli accertamenti già emessi, l’art. 2, comma 3 del D.Lgs. 128/2015 ha altresì previsto che “sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore del presente decreto”, ovvero al 2 settembre 2015.
Una simile previsione, che limita l'applicazione della disposizione appena introdotta agli avvisi di accertamento notificati successivamente alla data di entrata in vigore della modifica, determina, però, problemi di coordinamento e conformità ai precetti costituzionali di non poco conto.
Pertanto, il Legislatore è nuovamente intervenuto in materia con la Finanziaria 2016 (Legge 208/2015), da un lato, allungando i termini decadenziali ordinari (portandoli da quattro a cinque anni per la dichiarazione presentata e da cinque a sette anni per la dichiarazione omessa), e dall'altro, espungendo dalla norma il raddoppio dei termini.
Quindi, non vi è alcun dubbio, a parere della CTP di Reggio Emilia, che l'intento del Legislatore sia stato proprio quello di abrogare implicitamente la disciplina transitoria del raddoppio dei termini, relativa, per l'appunto, agli avvisi di accertamento emessi prima del 2 settembre 2015, al fine di assicurare il rispetto del principio di uguaglianza ed il diritto di difesa dei contribuenti e di superare qualsiasi disparità di trattamento degli stessi.
Va da sé, quindi, che, dall'avvenuta implicita abrogazione della disciplina transitoria contenuta nel D.Lgs. 128/2015 ad opera della Legge 208/2015, derivi che, affinché possa sussistere il raddoppio dei termini di decadenza dal potere di accertamento per violazioni penali, la denuncia penale va presentata entro l’ordinario termine decadenziale per l’accertamento stesso.
RADDOPPIO DEI TERMINI SOLO SE LA DENUNCIA PENALE È PRESENTATA ENTRO L'ORDINARIO TERMINE DECADENZIALE
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
A prescindere da quando l’accertamento è stato notificato, la denuncia penale va presentata entro l’ordinario termine decadenziale per l’accertamento stesso, affinché possa sussistere il raddoppio dei termini di decadenza dal potere di accertamento per violazioni penali.
È questo il dirompente principio sancito dalla Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia, con la sentenza n. 90 del 4 aprile 2016. Ciò, sulla base della considerazione per la quale la Legge 208/2015 ha abrogato implicitamente la disciplina transitoria contenuta nel D.Lgs. 128/2015.
Come noto, l'art. 57, comma 3 del D.P.R. 633/1972, così come modificato dal D.Lgs. 128/2015, dispone espressamente che “Il raddoppio non opera qualora la denuncia da parte dell'Amministrazione finanziaria, in cui è ricompresa la Guardia di finanza, sia presentata o trasmessa oltre la scadenza ordinaria dei termini di cui ai commi precedenti”.
Tuttavia, per salvare gli accertamenti già emessi, l’art. 2, comma 3 del D.Lgs. 128/2015 ha altresì previsto che “sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore del presente decreto”, ovvero al 2 settembre 2015.
Una simile previsione, che limita l'applicazione della disposizione appena introdotta agli avvisi di accertamento notificati successivamente alla data di entrata in vigore della modifica, determina, però, problemi di coordinamento e conformità ai precetti costituzionali di non poco conto.
Pertanto, il Legislatore è nuovamente intervenuto in materia con la Finanziaria 2016 (Legge 208/2015), da un lato, allungando i termini decadenziali ordinari (portandoli da quattro a cinque anni per la dichiarazione presentata e da cinque a sette anni per la dichiarazione omessa), e dall'altro, espungendo dalla norma il raddoppio dei termini.
Quindi, non vi è alcun dubbio, a parere della CTP di Reggio Emilia, che l'intento del Legislatore sia stato proprio quello di abrogare implicitamente la disciplina transitoria del raddoppio dei termini, relativa, per l'appunto, agli avvisi di accertamento emessi prima del 2 settembre 2015, al fine di assicurare il rispetto del principio di uguaglianza ed il diritto di difesa dei contribuenti e di superare qualsiasi disparità di trattamento degli stessi.
Va da sé, quindi, che, dall'avvenuta implicita abrogazione della disciplina transitoria contenuta nel D.Lgs. 128/2015 ad opera della Legge 208/2015, derivi che, affinché possa sussistere il raddoppio dei termini di decadenza dal potere di accertamento per violazioni penali, la denuncia penale va presentata entro l’ordinario termine decadenziale per l’accertamento stesso.
FRODE FISCALE: RESPONSABILI AMMINISTRATORI E SINDACI
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
Può essere condannato il consulente o il sindaco della società che partecipa alla frode fiscale avente come unico scopo quello di accumulare l'IVA per poi distrarla. Infatti, ai fini della responsabilità penale degli esterni alla compagine sociale, non è necessaria la conoscenza dello stato di dissesto.
È questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 14045 del 7 aprile 2016, ha reso definitiva la condanna a carico dei sindaci di una S.p.a finita nel mirino degli inquirenti nell'ambito di una grande frode fiscale.
La Suprema Corte ha spiegato che il dolo dell'extraneus nel reato proprio dell'amministratore consiste nella volontarietà della propria condotta di apporto a quella dell'intraneus, con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni del creditore, non essendo, invece, richiesta la specifica conoscenza del dissesto della società.
Conseguentemente, ogni atto distrattivo assume rilievo ai sensi dell'art. 216, legge fall. in caso di fallimento, indipendentemente dalla rappresentazione di quest'ultimo, il quale non costituisce l'evento del reato che, invece, coincide con la lesione dell'interesse patrimoniale della massa, posto che, se la conoscenza dello stato di decozione costituisce dato significativo della consapevolezza del terzo di arrecare danno ai creditori, ciò non significa che essa non possa ricavarsi da diversi fattori, quali la natura fittizia o l'entità dell'operazione che incide negativamente sul patrimonio della società.
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È POSSIBILE LA FALCIDIA DEL DEBITO IVA NEL CONCORDATO PREVENTIVO
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
Con sentenza del 7 aprile 2016, C-546/14, la Corte di Giustizia dell'Unione europea ha affermato il principio secondo cui l’articolo 4, paragrafo 3, TUE, nonché gli articoli 2, 250, paragrafo 1, e 273 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, non ostano a una normativa nazionale interpretata nel senso che un imprenditore in stato di insolvenza può presentare a un giudice una domanda di apertura di una procedura di concordato preventivo, al fine di saldare i propri debiti mediante la liquidazione del suo patrimonio, con la quale proponga di pagare solo parzialmente un debito dell’imposta sul valore aggiunto attestando, sulla base dell’accertamento di un esperto indipendente, che tale debito non riceverebbe un trattamento migliore nel caso di proprio fallimento.
Secondo la Corte di Giustizia, dunque, è ammissibile il concordato preventivo con pagamento parziale dei crediti IVA (resta ferma, ovviamente, la possibilità che l’Amministrazione finanziaria creditrice voti contro il concordato), ove:
- il debitore ricorrente non abbia deliberatamente occultato parte dell’attivo o omesso di denunciare uno o più crediti;
- un esperto indipendente attesti che l’amministrazione tributaria non avrebbe miglior soddisfazione in caso di fallimento.
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RIDUZIONE IMU E TASI AL 50 % IN CASO DI COMODATO
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners – Studio Legale Tributario
La Legge di stabilità 2016 (L. 208/2015) ha introdotto, con decorrenza dal 2016, la possibilità di computare una riduzione al 50% della base imponibile Imu e Tasi dovute in relazione agli immobili concessi in comodato ai familiari.
Tale agevolazione spetta per i fabbricati a destinazione abitativa non di lusso (ossia di categoria catastale diversa da A/1, A/8 e A/9), se concessi in comodato a parenti in linea retta entro il primo grado (padre – figlio ovvero figlio – padre); la base imponibile viene ridotta al 50% sia per l’Imu che per la Tasi.
Tale agevolazione è riconosciuta se:
- il comodatario (es: figlio destinatario dell’immobile) utilizza tale immobile quale propria abitazione principale;
- il comodante (es: padre proprietario dell’immobile) deve dimorare, nonché avere la residenza, in tale Comune;
- il comodante non deve possedere alcun altro immobile oltre a quello dato in comodato, a eccezione di quello che destina a propria abitazione principale (anche questo non di lusso);
- il contratto di comodato deve essere registrato, registrazione che deve avvenire con il pagamento dell’imposta di registro di 200 euro.
Di seguito, si propongono, in sintesi, i chiarimenti forniti dal Ministero dell'Economia e delle Finanze circa l’applicazione dell’agevolazione in commento con risoluzione n.1/DF del 17 febbraio 2016.
A) Un solo immobile “abitativo”: come detto, il comodante può possedere oltre all'immobile dato in comodato, un solo altro immobile da adibire a propria abitazione principale. Sul punto il MEF osserva che tale limitazione riguarda solo i fabbricati a destinazione abitativa; il possesso di immobili diversi non è ostativo (fabbricati strumentali, terreni, aree fabbricabili, etc). Neppure il possesso di pertinenze è ostativo.
B) In caso di comproprietà, il possesso di altro immobile è ostativo solo per il possessore: nell'ipotesi in cui, ad esempio, due coniugi possiedano in comproprietà al 50% un immobile che viene concesso in comodato al figlio e il marito possiede un altro immobile a uso abitativo in un Comune diverso da quello del primo immobile, l’agevolazione in esame si applica solo con riferimento alla quota di possesso della moglie, nel caso in cui per quest’ultimo soggetto venga rispettata la condizione che prevede il possesso dell’unico immobile, presupposto che non si verifica, invece, nei confronti del marito, il quale dovrà quindi corrispondere l’imposta, per la propria quota di possesso, senza l’applicazione del beneficio in questione.
C) In caso di comproprietà, il rapporto di parentela va verificato per il singolo contribuente: uno dei requisiti per fruire dell’agevolazione è che tra comodante e comodatario vi sia un rapporto di parentela di primo grado (padre/figlio o figlio/padre). Nel caso in cui l’immobile in comproprietà fra i coniugi è concesso in comodato ai genitori di uno di essi, allora l’agevolazione spetta al solo comproprietario per il quale è rispettato il vincolo di parentela richiesto dalla norma e cioè solo al figlio che concede l’immobile ai propri genitori, in ragione della quota di possesso.
D) Pertinenze agevolate: l’agevolazione si applica, oltre all'abitazione data in uso gratuito, anche alle pertinenze di questa, nel limite di una per ogni categoria catastale C/2, C/6 e C/7.
E) TASI solo per il comodante: il comodatario, dovendo adibire ad abitazione principale l’immobile concesso in comodato, non deve versare Tasi in forza dell’esenzione introdotta dalla L. 208/2015. Per quanto riguarda il comodante, invece, se ricorrono tutte le condizioni richieste dalla norma di favore, egli si trova a versare la Tasi – una volta ridotta la base imponibile del 50% – nella percentuale stabilita dal Comune nel regolamento relativo all'anno 2015; nel caso in cui non sia stata determinata la predetta percentuale, il comodante è tenuto ad applicare la Tasi nella misura pari al 90% dell'ammontare complessivo del tributo.
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