RETTIFICA PRO CONTRIBUENTE SEMPRE POSSIBILE IN SEDE CONTENZIOSA
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
La dichiarazione dei redditi è emendabile con integrativa a favore entro un anno, ma il termine non opera in sede contenziosa, essendo sempre ammessa la possibilità per il contribuente di opporre in giudizio la maggiore pretesa impositiva. In ogni caso, è fatto salvo il termine di quarantotto mesi per la presentazione dell'istanza di rimborso, con decorrenza dalla data degli indebiti versamenti. Sono questi i principi sanciti dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza del 30 giugno 2016, n. 13378.
Dunque, secondo quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, il contribuente, in caso di errori od omissioni nella dichiarazione dei redditi, può presentare la dichiarazione integrativa entro il termine per la presentazione della dichiarazione per il periodo d'imposta successivo, con compensazione del credito eventualmente risultante (art. 2, comma 8-bis, D.P.R. 322/1998), fermo restando che egli può chiedere il rimborso entro quarantotto mesi dal versamento.
Inoltre, il contribuente può sempre opporsi, in sede contenziosa, alla maggiore pretesa dell’Amministrazione finanziaria e chiedere la rettifica della dichiarazione contenente un qualsiasi errore, di fatto o di diritto, qualora questo comporti oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, in base alla legge, devono restare a suo carico. In caso contrario, vi sarebbe una violazione del principio della capacità contributiva previsto dall'art. 53 Cost.
Nell'ipotesi in cui, invece, la dichiarazione integrativa sia a proprio sfavore, e cioè diretta ad evitare un danno per l'Amministrazione finanziaria (art. 2, comma 8, D.P.R. 322/1998), può essere presentata entro i termini ordinari di decadenza dall'accertamento di cui all'art. 43 del D.P.R. 600/1973.
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RETTIFICA PRO CONTRIBUENTE SEMPRE POSSIBILE IN SEDE CONTENZIOSA
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
La dichiarazione dei redditi è emendabile con integrativa a favore entro un anno, ma il termine non opera in sede contenziosa, essendo sempre ammessa la possibilità per il contribuente di opporre in giudizio la maggiore pretesa impositiva. In ogni caso, è fatto salvo il termine di quarantotto mesi per la presentazione dell'istanza di rimborso, con decorrenza dalla data degli indebiti versamenti. Sono questi i principi sanciti dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza del 30 giugno 2016, n. 13378.
Dunque, secondo quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, il contribuente, in caso di errori od omissioni nella dichiarazione dei redditi, può presentare la dichiarazione integrativa entro il termine per la presentazione della dichiarazione per il periodo d'imposta successivo, con compensazione del credito eventualmente risultante (art. 2, comma 8-bis, D.P.R. 322/1998), fermo restando che egli può chiedere il rimborso entro quarantotto mesi dal versamento.
Inoltre, il contribuente può sempre opporsi, in sede contenziosa, alla maggiore pretesa dell’Amministrazione finanziaria e chiedere la rettifica della dichiarazione contenente un qualsiasi errore, di fatto o di diritto, qualora questo comporti oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, in base alla legge, devono restare a suo carico. In caso contrario, vi sarebbe una violazione del principio della capacità contributiva previsto dall'art. 53 Cost.
Nell'ipotesi in cui, invece, la dichiarazione integrativa sia a proprio sfavore, e cioè diretta ad evitare un danno per l'Amministrazione finanziaria (art. 2, comma 8, D.P.R. 322/1998), può essere presentata entro i termini ordinari di decadenza dall'accertamento di cui all'art. 43 del D.P.R. 600/1973.
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PRODUZIONE "SENZA LIMITI" DI DOCUMENTI IN APPELLO AL VAGLIO DELLA CONSULTA
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
La CTR Campania, con ordinanza del 6 maggio 2016, n. 943, ha disposto la sospensione del processo pendente dinanzi alla stessa, rimettendo la citata ordinanza e i relativi atti processuali alla Corte Costituzionale, affinché quest'ultima chiarisca se sia rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 58, secondo comma, D.Lgs. 546/1992, sia in sé che in relazione al primo comma della medesima norma, laddove consente la produzione in appello della prova documentale, pur se tale prova era nella disponibilità della parte producente già in primo grado.
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TRUST: LE CONDIZIONI PER FRUIRE DEI VANTAGGI PREVISTI DALLA C.D. LEGGE SUL DOPO DI NOI
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
In un precedente contributo del 16 giugno 2016, si evidenziavano le importanti agevolazioni fiscali previste dalla c.d. Legge sul dopo di noi in favore delle persone con disabilità grave. Tra le altre, vi sono:
- l'esenzione dall'imposta sulle successioni e donazioni;
- l'applicazione in misura fissa dell'imposta di registro e delle ipocatastali ai trasferimenti di beni e diritti;
- l'esenzione dall'imposta di bollo per tutti gli atti posti in essere o richiesti;
- la possibilità da parte dei Comuni di stabilire aliquote ridotte, franchigie o esenzioni ai fini IMU, in caso di conferimento di immobili e di diritti reali sugli stessi;
- condizioni più vantaggiose per le erogazioni liberali, donazioni e altri atti a titolo gratuito effettuati dai privati nei confronti del trust.
Nel presente contributo, si rileva tuttavia che, per poter rientrare nella fattispecie tipizzata, devono essere rispettate alcune condizioni molto stringenti, ai sensi dell'art. 6, terzo comma, della legge citata:
- l'istituzione del trust deve essere fatta per atto pubblico;
- l'atto istitutivo deve identificare in maniera chiara e univoca i soggetti coinvolti e i rispettivi ruoli; descrivere le funzionalità e i bisogni specifici delle persone con disabilità in favore delle quali il trust è istituito; indicare le attività assistenziali necessarie a garantire la cura e la soddisfazione dei bisogni delle persone con disabilità, comprese le attività finalizzate a ridurre il rischio della istituzionalizzazione delle persone con disabilità;
- deve individuare gli obblighi del trustee, con riguardo al progetto di vita e agli obiettivi di benessere che lo stesso deve promuovere in favore delle persone con disabilità grave, adottando ogni misura idonea a salvaguardarne i diritti, così come indicare gli obblighi e le modalità di rendicontazione a carico del trustee;
- gli esclusivi beneficiari del trust devono essere le persone con disabilità grave;
- i beni, di qualsiasi natura, conferiti nel trust devono essere destinati esclusivamente alla realizzazione delle finalità assistenziali del trust;
- l'atto istitutivo deve individuare il soggetto preposto al controllo delle obbligazioni imposte all'atto dell'istituzione del trust a carico del trustee;
- l'atto istitutivo deve prevedere il termine finale di durata del trust nella data della morte della persona con disabilità grave;
- l'atto istitutivo deve stabilire la destinazione del patrimonio residuo.
Appare dunque evidente come la norma condizioni il riconoscimento delle esenzioni e delle agevolazioni fiscali al fatto che il trust persegua come finalità esclusiva l’inclusione sociale, la cura e l’assistenza delle persone con disabilità grave.
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ESENTE DA IMPOSTE INDIRETTE IL MUTUO EROGATO DALLA BANCA CON PROVVISTA FORNITA DA CDP
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
L'Agenzia delle Entrate, con risoluzione del 25 luglio 2016, n. 61, ha chiarito che il regime di esenzione dalle imposte di registro, di bollo, ipotecaria e catastale, previsto per l'erogazione di finanziamenti, da parte di Cassa Depositi e Prestiti, a favore delle banche, affinché queste ultime possano erogare mutui garantiti da ipoteca in favore di giovani coppie, famiglie numerose o con disabili, per l'acquisto dell'abitazione principale o per interventi di ristrutturazione, trova applicazione anche in relazione all'erogazione finale operata dalle banche in favore dei mutuatari.
Ciò, sulla base della considerazione per la quale vi sarebbe uno stretto legame tra le due tipologie di finanziamento, così come si evince dalla Convenzione stipulata tra Cassa Depositi e Prestiti ed ABI, in data 20 novembre 2013, per definire le linee guida per l'applicazione della disposizione normativa recata dall'art. 5, comma 7-bis, del D.L. n. 269/2003, in virtù del quale il mutuo stipulato dalla banca con il beneficiario finale si pone quale atto esecutivo rispetto al finanziamento stipulato tra la Cassa e la banca.
A tal proposito, occorre ricordare innanzitutto che la particolare procedura di erogazione di finanziamenti, con provvista fornita da Cassa Depositi e Prestiti, volta a favore l'accesso al credito per l'acquisto dell'abitazione principale o per interventi di ristrutturazione da parte di giovani coppie, famiglie numerose o con disabili è introdotta dall'art. 5, comma 7-bis, del D.L. n. 269/2003.
La norma appena citata, richiamando il comma 24 della medesima disposizione, prevede espressamente un regime fiscale agevolato, in virtù del quale "tutti gli atti, contratti, trasferimenti, prestazioni e formalità ... sono esenti dall'imposta di registro, dall'imposta di bollo, dalle imposte ipotecaria e catastale e da ogni altra imposta indiretta, nonché ogni altro tributo o diritto", che, secondo quanto chiarito dall'Agenzia delle Entrate, trova applicazione anche con riferimento al contratto di mutuo stipulato tra la banca ed il beneficiario finale.
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AUMENTA LA LISTA DEGLI STATI CHE SI SCAMBIANO INFORMAZIONI AI FINI FISCALI
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
Il rapporto OCSE indirizzato ai Ministri delle finanze dei Paesi del G20, riunitisi a Chengdu il 23 e 24 luglio 2016, fa il punto della situazione sulle procedure di scambio di informazioni ai fini fiscali tra i vari Stati, evidenziandone i progressi. Infatti, sono ormai 98 gli Stati o territori che hanno sottoscritto la Convenzione Multilaterale per la mutua assistenza ai fini fiscali.
Nel citato rapporto Ocse, si rileva che 55 Stati (compresa l'Italia) si scambieranno per la prima volta i dati nel 2017, con riferimento al periodo di imposta 2016. Altri 46 Stati procederanno allo scambio invece per la prima volta nel 2018, con riferimento al periodo di imposta 2017. Poi, vi sono gli Stati Uniti d'America, i quali procedono allo scambio secondo le regole FATCA.
Tra gli Stati che si sono impegnati allo scambio automatico delle informazioni ai fini fiscali per la prima volta nel 2018 vi sono a sorpresa Stati con giurisdizioni storicamente restie alla sottoscrizione della Convenzione Multilaterale, quali, ad esempio, Panama, Emirati Arabi Uniti, Libano e Hong Kong.
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AUMENTA LA LISTA DEGLI STATI CHE SI SCAMBIANO INFORMAZIONI AI FINI FISCALI
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
Il rapporto OCSE indirizzato ai Ministri delle finanze dei Paesi del G20, riunitisi a Chengdu il 23 e 24 luglio 2016, fa il punto della situazione sulle procedure di scambio di informazioni ai fini fiscali tra i vari Stati, evidenziandone i progressi. Infatti, sono ormai 98 gli Stati o territori che hanno sottoscritto la Convenzione Multilaterale per la mutua assistenza ai fini fiscali.
Nel citato rapporto Ocse, si rileva che 55 Stati (compresa l'Italia) si scambieranno per la prima volta i dati nel 2017, con riferimento al periodo di imposta 2016. Altri 46 Stati procederanno allo scambio invece per la prima volta nel 2018, con riferimento al periodo di imposta 2017. Poi, vi sono gli Stati Uniti d'America, i quali procedono allo scambio secondo le regole FATCA.
Tra gli Stati che si sono impegnati allo scambio automatico delle informazioni ai fini fiscali per la prima volta nel 2018 vi sono a sorpresa Stati con giurisdizioni storicamente restie alla sottoscrizione della Convenzione Multilaterale, quali, ad esempio, Panama, Emirati Arabi Uniti, Libano e Hong Kong.
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CARTELLE DI PAGAMENTO NON IMPUGNATE: LE SANZIONI SI PRESCRIVONO IN 5 ANNI
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
Si prescrivono in cinque anni le sanzioni derivanti da una cartella di pagamento divenuta definitiva per mancata impugnazione. La prescrizione decennale si applica solo se la definitività della sanzione deriva da una sentenza passata in giudicato. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione, con ordinanza del 20 giugno 2016, n. 12715.
Nel caso di specie, nel ricorso introduttivo del primo grado di giudizio il contribuente aveva eccepito l'intervenuta prescrizione quinquennale, limitatamente agli importi per sanzioni e interessi. Tale eccezione veniva accolta dalla CTP. Di diverso avviso si mostrava la CTR, che difatti accoglieva l’appello proposto dall'Agente della riscossione.
Ebbene, la Suprema Corte, investita dell’esame della controversia, ha affermato che le sanzioni amministrative pecuniarie derivanti da una cartella di pagamento divenuta definitiva per mancata impugnazione si prescrivono in cinque anni.
Ciò, sulla base della considerazione per la quale il diritto alla riscossione delle sanzioni previste per la violazione di norme tributarie, derivante da sentenza passata in giudicato, si prescrive entro il termine di dieci anni, per diretta applicazione dell'art. 2953 cod. civ., che disciplina specificamente e in via generale la cosiddetta "actio iudicati"; mentre, se la definitività della sanzione non deriva da un provvedimento giurisdizionale irrevocabile, vale il termine di prescrizione di cinque anni, previsto dall'art. 20 del D.Lgs. 472/1997.
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ACCERTAMENTO REDDITOMETRICO: BISOGNA DIMOSTRARE LA DURATA E L'ENTITÀ DEI REDDITI CHE INTEGRANO LA PROVA CONTRARIA
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
La Corte di Cassazione, con ordinanza del 13 luglio 2016, n. 14324, ha affermato che, in tema di accertamento c.d. redditometrico, il contribuente deve dimostrare la durata e l’entità dei redditi che integrano la prova contraria.
A tal fine, i redditi prodotti all'estero e fiscalmente irrilevanti in Italia possono quindi costituire prova contraria, se il contribuente dimostra che l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso possono costituire circostanze sintomatiche del fatto che la spesa per incrementi patrimoniali sia stata sostenuta proprio con tali redditi, non essendo invece necessaria la prova che l’esborso delle spese sia stato finanziato proprio tramite l’entrata di cassa rappresentata dai redditi esteri.
Ciò, sulla base della considerazione per la quale l'art. 38 del D.P.R. 600/1973 (vigente ratione temporis) non impone che la prova contraria sia costituita dalla dimostrazione per cui le disponibilità finanziarie sono state utilizzate per sostenere la spesa relativa all'incremento patrimoniale contestato, ma richiede una dimostrazione documentale sintomatica del fatto che ciò sia potuto, ragionevolmente, accadere.
Quindi, non soltanto il contribuente deve provare l’entità delle disponibilità finanziarie, ma deve anche dimostrarne il possesso per un periodo di tempo sufficiente. In altri termini, non basta che i redditi o le risorse economiche siano transitate nella disponibilità del contribuente, ma è necessario che siano rimasti in suo possesso, così da escludere che possano poi essere stati utilizzati per un successivo investimento (cfr. Cass. nn. 8995/2014, 17663/2014, 25104/2014, 14885/2015, 22944/2015).
Tutto ciò in relazione al "vecchio accertamento" redditometrico, perché, per quello nuovo, dall'art. 38 del D.P.R. 600/1973 è stata espunta la frase "l'entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione", il che potrebbe significare un onere probatorio attenuato rispetto a quello che la norma previgente poneva in capo al contribuente.
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IL GIUDICE TRIBUTARIO DEVE RIDETERMINARE L'IMPOSTA CORRETTA
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario
Laddove il giudice tributario ritenga invalido l'avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può
limitarsi ad annullare l'atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione, con sentenza del 28 giugno 2016, n. 13296.
Ciò, sulla base della considerazione per la quale il processo tributario non è annoverabile tra quelli di "impugnazione-annullamento", ma tra i processi di "impugnazione-merito", in quanto non è diretto alla sola eliminazione giuridica dell'atto impugnato, ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell'accertamento dell'Ufficio.
Nel caso di specie, invece, il giudice di appello aveva rimesso all'Ufficio l’onere, una volta verificato di essere "incorso nel grossolano materiale errore di computare anche l’IVA tra i maggiori ricavi" accertati, di "procedere al ricalcolo dei ricavi medesimi scorporando dagli stessi l’IVA erroneamente calcolata e rideterminare conseguentemente le imposte effettivamente dovute", nonché di "procedere all'abbattimento percentuale dei maggiori costi presumibili, correlati ai maggiori ricavi presunti" e di rideterminare le sanzioni irrogate mediante applicazione del regime del cumulo giuridico anche pluriennale (art. 6, comma 5, D.Lgs. 471/1997 e art. 12, comma 5, D.Lgs. 472/1997).
Pertanto, rimettendo alla parte pubblica tali attività, secondo la Suprema Corte, la CTR è venuta meno all'obbligo di accertare e determinare l'ammontare dell'imposta e delle sanzioni dovute dalla contribuente, "che è oggetto dei poteri del giudice tributario oltre che suo preciso dovere istituzionale" (cfr. Cass. Sez. 6-5, Ordinanza n. 26157 del 2013).
In definitiva, la statuizione nella specie adottata dalla CTR si risolve sostanzialmente in una pronuncia parziale, sull'an della pretesa tributaria ma non sul quantum, in violazione del divieto, posto dall'art. 35, comma 3, del D.Lgs. 546/1992, di pronuncia da parte delle commissioni tributarie di sentenza di condanna generica, avente natura di sentenza non definitiva, come correttamente denunciato dalla contribuente nel ricorso per Cassazione.
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