IL GIUDICATO FAVOREVOLE DEL COOBBLIGATO NON SUPERA QUELLO SFAVOREVOLE

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario

Il giudicato favorevole del coobbligato non può essere esteso agli altri coobbligati nei confronti dei quali si sia formato un giudicato diretto ostativo. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 9598 dell'11 maggio 2016, che, conformemente al proprio consolidato orientamento, interviene sulla nota questione relativa alla possibilità di estendere il giudicato favorevole.

Nel caso di specie, due di tre soggetti coobbligati solidali d'imposta derivante da un atto di compravendita immobiliare, dopo aver impugnato l'avviso di rettifica dell'imposta di registro con esito negativo, lasciavano decorrere i termini di impugnazione della sentenza di primo grado, che assumeva quindi carattere di definitività, a differenza del terzo soggetto, il quale impugnava la sentenza di rigetto con esito positivo.

Gli altri due contribuenti, che non avevano impugnato la sentenza sfavorevole di primo grado, avevano ritenuto di avvalersi di quella favorevole, ottenuta dal terzo soggetto in sede di appello, non impugnata dalla parte erariale e, quindi, divenuta giudicato, in fase di successiva riscossione degli importi scaturenti dal loro giudicato sfavorevole.

Sul punto, tuttavia, la Suprema Corte ha affermato tout court che la mancata impugnazione da parte dei due contribuenti della sentenza di primo grado sfavorevole ha determinato nei loro confronti la formazione di un giudicato diretto ostativo all'estensione del giudicato favorevole da loro invocato.

In effetti, si ricorda che, secondo l'opinione dominante, il coobbligato può far valere un giudicato favorevole ad un altro coobbligato:
- se il giudicato favorevole al secondo non sia dipeso da propri specifici motivi e sia relativo all'intero rapporto obbligatorio;
- per opporsi ad atti di riscossione ma non per chiedere somme in restituzione;
- se non abbia subito un proprio giudicato sfavorevole.

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NUOVE DISPOSIZIONI FISCALI RELATIVE ALLE PROCEDURE DI CRISI - seconda parte

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario

Come evidenziato in un precedente contributo, il D.L. 14 febbraio 2016 n. 18 contiene disposizioni concernenti la riforma del settore bancario cooperativo, la garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze (Gacs), il regime fiscale relativo alle procedure di crisi e la gestione collettiva del risparmio. Con particolare riferimento al regime fiscale relativo alle procedure di crisi, si evidenza che rilevanti benefici fiscali sono previsti dagli articoli 14, 15 e 16 del citato decreto.

Orbene, l'art. 15 del citato decreto legge disciplina gli effetti fiscali della cessione di diritti, attività e passività di un ente sottoposto a risoluzione a favore di un ente-ponte, prevista e disciplinata dall'art. 43, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 180/2015, nell'ambito della nuova procedura di risoluzione delle crisi bancarie.

In particolare, il comma 1 dell’articolo 15 stabilisce che “la cessione di diritti, attività e passività di un ente sottoposto a risoluzione a un ente ponte, di cui all'articolo 43, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 16 novembre 2015, n. 180, non costituisce realizzo di plusvalenze o minusvalenze ai fini dell'imposta sul reddito delle società e dell'imposta regionale sulle attività produttive. I beni ricevuti dall'ente ponte sono valutati fiscalmente in base agli ultimi valori fiscali riconosciuti in capo all'ente cedente”. Ne consegue che:
- per l’ente sottoposto a risoluzione, la cessione non costituisce realizzo di plusvalenze o minusvalenze ai fini Ires e Irap;
- per l’ente-ponte, invece, i beni ricevuti sono valutati fiscalmente in base agli ultimi valori fiscali riconosciuti in capo all'ente cedente.

A norma del successivo comma 2, per effetto della cessione, l’ente-ponte subentra nella posizione dell’ente sottoposto a risoluzione in ordine a diritti, attività o passività oggetto di cessione. Il subentro riguarda altresì:
- la deduzione o la tassazione dei componenti di reddito dell’ente sottoposto a risoluzione già imputati a conto economico e non ancora dedotti o tassati dallo stesso alla data della cessione;
- le deduzioni derivanti da opzioni di riallineamento dell’avviamento e di altre attività immateriali esercitate dall'ente sottoposto a risoluzione.

Infine, si stabilisce che “le perdite di cui all'articolo 84 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 dell'ente sottoposto a risoluzione sono portate in diminuzione del reddito dell'ente ponte”. Si ricordi che la disciplina del riporto delle perdite è dettata dall'art. 84 del Tuir, il cui primo periodo stabilisce, in termini generali, che “la perdita di un periodo d'imposta, determinata con le stesse norme valevoli per la determinazione del reddito, può essere computata in diminuzione del reddito dei periodi d'imposta successivi in misura non superiore all'ottanta per cento del reddito imponibile di ciascuno di essi e per l'intero importo che trova capienza in tale ammontare”.

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NON VI È RICONOSCIMENTO DEL DEBITO TRIBUTARIO SE IL CONTRIBUENTE PRESENTA ISTANZA DI RATEIZZAZIONE

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario

La sottoscrizione dell'istanza di rateazione del pagamento di un'imposta non determina la cessazione dell'interesse alla decisione del ricorso già proposto avverso l'atto impositivo o di riscossione, in quanto, salva espressa dichiarazione in contrario, la sottoscrizione stessa non configura un riconoscimento del debito tributario, ma solo l'impegno di pagare l'imposta secondo la rateizzazione stabilita. È questo il principio sancito dalla Commissione Tributaria Regionale di Palermo con sentenza n. 652 del 17 febbraio 2016.

La vicenda trae origine dall'impugnazione di una cartella di pagamento mai notificata e dalla successiva presentazione di un'istanza di rateazione della stessa al fine di evitare il fermo amministrativo su un bene mobile. Sulla base di ciò, la Commissione Tributaria Provinciale aveva ritenuto che il contribuente era sicuramente venuto a conoscenza della cartella nei confronti della quale aveva fatto acquiescenza, non avendola impugnata.

I Giudici di secondo grado, invece, hanno affermato tout court che la presentazione da parte del ricorrente di istanza di rateizzazione dell'importo indicato nella cartella non dimostra in alcun modo la conoscenza da parte sua della cartella in data precedente alla proposizione del ricorso, per la semplice e decisiva ragione che l'istanza di rateizzazione è stata avanzata solo in un momento successivo alla presentazione del ricorso.

Ma non solo. Quanto all'acquiescenza, la CTR di Palermo ritiene che la sottoscrizione dell'istanza di rateazione del pagamento di un'imposta non determini la cessazione dell'interesse alla decisione del ricorso già proposto avverso l'atto impositivo o di riscossione, in quanto, salva espressa dichiarazione in senso contrario, la sottoscrizione stessa non configura un riconoscimento del debito tributario, ma solo l'impegno di pagare l'imposta secondo la rateizzazione stabilita (cfr., Cass. sentenza 5 novembre 1981, n.5822).

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NUOVE DISPOSIZIONI FISCALI RELATIVE ALLE PROCEDURE DI CRISI - prima parte

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario

Il D.L. 14 febbraio 2016 n. 18 contiene disposizioni concernenti la riforma del settore bancario cooperativo, la garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze (Gacs), il regime fiscale relativo alle procedure di crisi e la gestione collettiva del risparmio. Con particolare riferimento al regime fiscale relativo alle procedure di crisi, si evidenza che rilevanti benefici fiscali sono previsti dagli articoli 14, 15 e 16 del citato decreto.

In particolare, il comma 1 dell’articolo 14 modifica l’articolo 88 del Tuir, inserendovi il nuovo comma 3-bis, che prevede l’esclusione dalla tassazione dei contributi percepiti “a titolo di liberalità” da soggetti per i quali risultino attivate procedure concorsuali ovvero procedure di crisi. In tal modo, quindi, si stabilisce l’irrilevanza fiscale dei predetti contributi, che vengono espressamente esclusi dalla categoria delle sopravvenienze attive.

Con particolare riguardo al settore bancario, invece, i contributi rilevanti ai fini dell’applicazione del regime dell’irrilevanza fiscale sono quelli percepiti da:
- enti creditizi sottoposti alle procedure di crisi, di cui all'articolo 20 D.Lgs. 180/2015, attivabili qualora risultino accertati i presupposti indicati dall'articolo 17 del medesimo D.Lgs. (dissesto o rischio di dissesto bancario);
- enti creditizi sottoposti alla procedura di amministrazione straordinaria, di cui all'articolo 70 e seguenti del D.Lgs. 385/1993 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia).

In tali casi, pertanto, l’irrilevanza fiscale delle liberalità interessa specificamente il settore del credito. L’ambito soggettivo di applicazione del nuovo comma 3-bis dell’articolo 88 Tuir, quindi, è alquanto esteso, involgendo tutte le imprese eventualmente sottoposte a una delle procedure indicate dalla norma.

Sotto il profilo oggettivo, tuttavia, la medesima disposizione esclude dal proprio ambito di applicazione i contributi che l’impresa in crisi riceve a titolo di liberalità da “società controllate” ovvero da società “controllate dalla stessa società che controlla l’impresa”. Questi ultimi, pertanto, qualora percepiti, costituiranno sopravvenienze attive e, come tali, saranno assoggettate al relativo regime di tassazione.

Il comma 2 dell’articolo 14 fissa la decorrenza delle nuove disposizioni, stabilendo che il regime dell’irrilevanza fiscale risulta applicabile “ai contributi percepiti a partire dal periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto-legge”, pertanto dal periodo d’imposta 2016.

Tuttavia, limitatamente ai contributi percepiti nel 2016, la medesima disposizione stabilisce che l’irrilevanza non opera immediatamente nell'esercizio in cui sono percepiti, ossia il 2016 (in cui, pertanto, gli stessi saranno assoggettati a piena e integrale tassazione), bensì “mediante una deduzione dal reddito ripartita in cinque quote costanti da effettuare nelle dichiarazioni dei redditi relative ai cinque periodi d'imposta successivi, sempre che tali proventi concorrano integralmente a formare il reddito nell'esercizio in cui sono stati incassati”.

Il successivo comma 3 dell’articolo 14 chiarisce che la determinazione dell’acconto dovuto per i periodi d’imposta per i quali è operata la deduzione è effettuata considerando, quale imposta del periodo precedente, quella che si sarebbe determinata in assenza delle nuove disposizioni.

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NIENTE IRAP PER IL PROFESSIONISTA CON UN SOLO COLLABORATORE STABILE

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario

La presenza di una segretaria o di un unico collaboratore con funzioni meramente esecutive non fa scattare l’IRAP per il professionista. È questo il principio sancito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 9451 del 10 maggio 2016.

La vicenda trae origine dalla presentazione di un ricorso per Cassazione, da parte dell'Agenzia delle Entrate, avverso una decisione della Commissione Tributaria Regionale della Campania, che aveva riconosciuto ad un avvocato il diritto al rimborso dell’IRAP pagata tra il 2000 ed il 2004. Intravedendo un contrasto interpretativo, nel gennaio 2015 la sezione tributaria della Suprema Corte aveva rimesso il fascicolo alle Sezioni Unite.

Con la pronuncia in commento, gli Ermellini, dopo aver ripercorso l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità e costituzionale dal 2007 ad oggi, hanno tracciato i confini applicativi degli articoli 2 e 3 del D.Lgs. 446/1997, evidenziando come non sia idonea a configurare un'attività autonomamente organizzata la circostanza di "avvalersi in modo non occasionale di lavoro altrui quando questo si concreti nell'espletamento di mansioni di segreteria o generiche o meramente esecutive, che rechino all'attività svolta dal contribuente un apporto del tutto mediato o generico". Ciò, a condizione che sia utilizzato un unico collaboratore.

Conseguentemente, deve ritenersi che il requisito dell'autonoma organizzazione ricorre quando il contribuente, nel contempo:
- sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture riferibili ad altrui responsabilità ed interesse;
- impieghi beni strumentali eccedenti il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di organizzazione oppure si avvalga, in modo non occasionale, di lavoro altrui che superi la soglia dell'impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria o meramente esecutive.

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NIENTE IRAP PER IL PROFESSIONISTA CON UN SOLO COLLABORATORE STABILE

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario

La presenza di una segretaria o di un unico collaboratore con funzioni meramente esecutive non fa scattare l’IRAP per il professionista. È questo il principio sancito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 9451 del 10 maggio 2016.

La vicenda trae origine dalla presentazione di un ricorso per Cassazione, da parte dell'Agenzia delle Entrate, avverso una decisione della Commissione Tributaria Regionale della Campania, che aveva riconosciuto ad un avvocato il diritto al rimborso dell’IRAP pagata tra il 2000 ed il 2004. Intravedendo un contrasto interpretativo, nel gennaio 2015 la sezione tributaria della Suprema Corte aveva rimesso il fascicolo alle Sezioni Unite.

Con la pronuncia in commento, gli Ermellini, dopo aver ripercorso l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità e costituzionale dal 2007 ad oggi, hanno tracciato i confini applicativi degli articoli 2 e 3 del D.Lgs. 446/1997, evidenziando come non sia idonea a configurare un'attività autonomamente organizzata la circostanza di "avvalersi in modo non occasionale di lavoro altrui quando questo si concreti nell'espletamento di mansioni di segreteria o generiche o meramente esecutive, che rechino all'attività svolta dal contribuente un apporto del tutto mediato o generico". Ciò, a condizione che sia utilizzato un unico collaboratore.

Conseguentemente, deve ritenersi che il requisito dell'autonoma organizzazione ricorre quando il contribuente, nel contempo:
- sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture riferibili ad altrui responsabilità ed interesse;
- impieghi beni strumentali eccedenti il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di organizzazione oppure si avvalga, in modo non occasionale, di lavoro altrui che superi la soglia dell'impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria o meramente esecutive.

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ACCERTAMENTO BANCARIO NULLO SE L'UFFICIO NON RISPETTA IL TERMINE PER GLI INVITI E LE RICHIESTE AL CONTRIBUENTE

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario

L'accertamento bancario è nullo se l'Ufficio, a seguito dell'espletamento delle indagini finanziarie, non conceda al contribuente trenta giorni di tempo, a partire dalla data di ricevimento dell'apposito invito a comparire, per fornire giustificazioni circa i movimenti finanziari contestati. È questo il principio sancito dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano con sentenza n. 3677 del 22 aprile 2016.

Con la pronuncia in commento, i Giudici meneghini hanno affermato tout court che, se non è rispettato il termine di trenta giorni tra la data di ricevimento dell'invito da parte del contribuente e la data fissata per la sua presentazione in Ufficio, il conseguente avviso di accertamento è nullo.

Ciò sulla base della considerazione per la quale l'art. 32, comma 2 del D.P.R. 600/1973 dispone espressamente che gli inviti e le richieste dell'Ufficio devono essere notificati ai sensi dell'art. 60 del D.P.R. 600/1973 e dalla data di notifica decorre il termine fissato dall'Ufficio per l'adempimento, che non può essere inferiore a 15 giorni ovvero per il caso di cui al n. 7) a 30 giorni.

In definitiva, il mancato rispetto del predetto termine determina l'illegittimità dell'avviso di accertamento emesso, atteso che esso viene considerato termine perentorio e non ordinatorio, come sostenuto dall'Ufficio. In ogni caso, si rileva che il termine di trenta giorni considerato dai Giudici milanesi non sembra corretto poiché il caso di cui al n. 7) dovrebbe fare riferimento esclusivamente alle richieste dell'Amministrazione finanziaria agli operatori finanziari e soggetti assimilati.

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ACCERTAMENTO BANCARIO NULLO SE L'UFFICIO NON RISPETTA IL TERMINE PER GLI INVITI E LE RICHIESTE AL CONTRIBUENTE

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario

L'accertamento bancario è nullo se l'Ufficio, a seguito dell'espletamento delle indagini finanziarie, non conceda al contribuente trenta giorni di tempo, a partire dalla data di ricevimento dell'apposito invito a comparire, per fornire giustificazioni circa i movimenti finanziari contestati. È questo il principio sancito dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano con sentenza n. 3677 del 22 aprile 2016.

Con la pronuncia in commento, i Giudici meneghini hanno affermato tout court che, se non è rispettato il termine di trenta giorni tra la data di ricevimento dell'invito da parte del contribuente e la data fissata per la sua presentazione in Ufficio, il conseguente avviso di accertamento è nullo.

Ciò sulla base della considerazione per la quale l'art. 32, comma 2 del D.P.R. 600/1973 dispone espressamente che gli inviti e le richieste dell'Ufficio devono essere notificati ai sensi dell'art. 60 del D.P.R. 600/1973 e dalla data di notifica decorre il termine fissato dall'Ufficio per l'adempimento, che non può essere inferiore a 15 giorni ovvero per il caso di cui al n. 7) a 30 giorni.

In definitiva, il mancato rispetto del predetto termine determina l'illegittimità dell'avviso di accertamento emesso, atteso che esso viene considerato termine perentorio e non ordinatorio, come sostenuto dall'Ufficio. In ogni caso, si rileva che il termine di trenta giorni considerato dai Giudici milanesi non sembra corretto poiché il caso di cui al n. 7) dovrebbe fare riferimento esclusivamente alle richieste dell'Amministrazione finanziaria agli operatori finanziari e soggetti assimilati.

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INTERESSI PASSIVI DEDUCIBILI SOLO CON CONTRATTO SCRITTO

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario

Ai fini della deducibilità degli interessi passivi relativi a finanziamenti concessi da terzi, è necessario che il contribuente esibisca il relativo contratto di finanziamento, sottoscritto in data certa, dal quale sia rilevabile il saggio degli interessi applicati. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 4615 del 9 marzo 2016.

La vicenda trae origine dall'avvenuta deduzione, da parte di una srl, delle somme a titolo di interessi passivi su debiti verso società collegate, che l'Amministrazione finanziaria contestava poiché la citata srl si era limitata a documentare il rapporto di conto corrente con la sua controllante senza produrre alcunché relativamente al finanziamento contestato.

Con la pronuncia in commento, i Giudici di Piazza Cavour, accogliendo la tesi difensiva dell'Amministrazione finanziaria, hanno affermato che mancava il necessario riferimento all'esistenza di un vero e proprio contratto di finanziamento tra le due società, alla sua sottoscrizione, ad opera delle parti, in data certa e, soprattutto, ai suoi contenuti, con particolare riguardo al tasso applicato, ai fini della doverosa verifica della deducibilità degli interessi passivi.

In definitiva, quindi, la Suprema Corte ha ritenuto che, ai fini della deducibilità degli interessi passivi corrisposti in virtù di un finanziamento ricevuto, è necessario che il contribuente esibisca il contratto di finanziamento regolarmente sottoscritto dai contraenti e provvisto di data certa, dal quale si rinvenga la misura del saggio di interesse applicato, affinché l'Amministrazione finanziaria possa verificare che gli interessi passivi siano stati dedotti nella misura contrattualmente prevista.

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INTERESSI PASSIVI DEDUCIBILI SOLO CON CONTRATTO SCRITTO

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners Studio Legale Tributario

Ai fini della deducibilità degli interessi passivi relativi a finanziamenti concessi da terzi, è necessario che il contribuente esibisca il relativo contratto di finanziamento, sottoscritto in data certa, dal quale sia rilevabile il saggio degli interessi applicati. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 4615 del 9 marzo 2016.

La vicenda trae origine dall'avvenuta deduzione, da parte di una srl, delle somme a titolo di interessi passivi su debiti verso società collegate, che l'Amministrazione finanziaria contestava poiché la citata srl si era limitata a documentare il rapporto di conto corrente con la sua controllante senza produrre alcunché relativamente al finanziamento contestato.

Con la pronuncia in commento, i Giudici di Piazza Cavour, accogliendo la tesi difensiva dell'Amministrazione finanziaria, hanno affermato che mancava il necessario riferimento all'esistenza di un vero e proprio contratto di finanziamento tra le due società, alla sua sottoscrizione, ad opera delle parti, in data certa e, soprattutto, ai suoi contenuti, con particolare riguardo al tasso applicato, ai fini della doverosa verifica della deducibilità degli interessi passivi.

In definitiva, quindi, la Suprema Corte ha ritenuto che, ai fini della deducibilità degli interessi passivi corrisposti in virtù di un finanziamento ricevuto, è necessario che il contribuente esibisca il contratto di finanziamento regolarmente sottoscritto dai contraenti e provvisto di data certa, dal quale si rinvenga la misura del saggio di interesse applicato, affinché l'Amministrazione finanziaria possa verificare che gli interessi passivi siano stati dedotti nella misura contrattualmente prevista.

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