OK AL RIMBORSO DELL'IVA RELATIVA AI BENI MOBILI AMMORTIZZABILI

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners – Studio Legale Tributario, da IPSOA Quotidiano, 14 giugno 2013

È legittimo il diritto di rimborso dell’IVA relativa ai beni mobili ammortizzabili anche quando il contratto di acquisto preveda una clausola di riserva della proprietà. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 13315 del 29 maggio 2013. La Suprema Corte, intervenendo sulla questione del rimborso dell’eccedenza detraibile dell’IVA relativa ad acquisti di beni mobili ammortizzabili, ha dichiarato che è legittimo il diritto di rimborso dell’IVA nell’ipotesi contemplata dall’art. 30, comma 3, lettera c), D.P.R. n. 633/1972, riferita “all’acquisto o all’importazione di beni ammortizzabili […]”, anche quando il contratto di acquisto preveda una clausola di riserva della proprietà in forza della quale il passaggio dei beni all’acquirente si verifica nel momento dell’integrale pagamento del prezzo che, nel caso di specie, non risultava ancora avvenuto.
Ciò in considerazione di quanto disposto dall’art. 2, comma 2, n.1), del decreto IVA, il quale assimila le vendite con riserva di proprietà alle cessioni di beni, e dall’art. 6, comma 1, il quale dispone che tali cessioni, se hanno per oggetto beni mobili, si considerano effettuate nel momento della consegna o spedizione.
In particolare, a norma dell’art. 2, comma 2, n. 1), del decreto IVA, le vendite con riserva di proprietà costituiscono cessioni di beni “assimilate” alle cessioni in senso stretto, cioè con trasferimento della proprietà, oltre che a titolo oneroso. Quindi, tali vendite, al pari delle locazioni con clausola di trasferimento della proprietà vincolante per entrambe le parti, di cui al successivo n. 2) del citato comma 2 dell’art. 2, integrano il presupposto oggettivo d’imposta anche se, in deroga alle regole generali della disciplina civilistica, non soddisfano tutti i requisiti delle cessioni.
Dal punto di vista temporale, l’art. 6, comma 1, D.P.R. n. 633/1972 dispone altresì che le operazioni in esame, a differenza delle altre ipotesi i cui effetti traslativi si producono posteriormente, si considerano effettuate in base ai parametri “ordinari”, vale a dire – per le
cessioni di beni mobili – nel momento della consegna o della spedizione.
Secondo i Giudici di legittimità, il rimborso dell’eccedenza dell’imposta detraibile spetta in quanto “nel caso di contratto di vendita con riserva di proprietà che riguardi […] beni mobili, in virtù dell’anticipazione ai fini fiscali dell’effetto traslativo, l’imposta diviene esigibile sull’intero corrispettivo nel momento della consegna o spedizione dei beni ed è versata con le modalità e nei termini stabiliti nel D.P.R. n. 633 del 1972”.
Con tale pronuncia, i Giudici di Piazza Cavour stabiliscono dunque che, ai fini IVA, l'acquisto di beni mobili ammortizzabili con riserva della proprietà non preclude il diritto di rimborso della relativa imposta. Agli effetti dell'IVA, infatti, la sospensione civilistica del trasferimento della proprietà a garanzia del pagamento integrale del prezzo non opera e, dato che per le vendite di beni mobili con riserva della proprietà l'imposta diventa esigibile e, quindi, detraibile nel momento della consegna o della spedizione, è in tale momento che sorge il diritto di rimborso.
Alla luce del suesposto principio, i Giudici di legittimità, confermando le decisioni rese in primo grado e in appello, hanno escluso pertanto che i beni acquistati diventassero fiscalmente ammortizzabili solo nel momento in cui si fosse verificato il passaggio della proprietà, con conseguente diniego del rimborso chiesto in un momento anteriore.
La Suprema Corte, in virtù di quanto disposto dall’art. 30, D.P.R. n. 633/1972, ha ritenuto - correttamente, a parere di chi scrive - che, anche per il contratto di vendita di beni mobili con riserva di proprietà, l’imposta diventa esigibile sull’intero corrispettivo nel momento della consegna ed è versata secondo le regole generali che caratterizzano le operazioni soggette a IVA.
In definitiva, se l’IVA diventa esigibile nel momento della consegna, è a partire da tale momento che la stessa, essendo detraibile ai sensi dell’art. 19, comma 1, D.P.R. 633/1972, è anche rimborsabile.

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OK AL RIMBORSO DELL'IVA RELATIVA AI BENI MOBILI AMMORTIZZABILI

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners – Studio Legale Tributario, da IPSOA Quotidiano, 14 giugno 2013

È legittimo il diritto di rimborso dell’IVA relativa ai beni mobili ammortizzabili anche quando il contratto di acquisto preveda una clausola di riserva della proprietà. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 13315 del 29 maggio 2013. La Suprema Corte, intervenendo sulla questione del rimborso dell’eccedenza detraibile dell’IVA relativa ad acquisti di beni mobili ammortizzabili, ha dichiarato che è legittimo il diritto di rimborso dell’IVA nell’ipotesi contemplata dall’art. 30, comma 3, lettera c), D.P.R. n. 633/1972, riferita “all’acquisto o all’importazione di beni ammortizzabili […]”, anche quando il contratto di acquisto preveda una clausola di riserva della proprietà in forza della quale il passaggio dei beni all’acquirente si verifica nel momento dell’integrale pagamento del prezzo che, nel caso di specie, non risultava ancora avvenuto.
Ciò in considerazione di quanto disposto dall’art. 2, comma 2, n.1), del decreto IVA, il quale assimila le vendite con riserva di proprietà alle cessioni di beni, e dall’art. 6, comma 1, il quale dispone che tali cessioni, se hanno per oggetto beni mobili, si considerano effettuate nel momento della consegna o spedizione.
In particolare, a norma dell’art. 2, comma 2, n. 1), del decreto IVA, le vendite con riserva di proprietà costituiscono cessioni di beni “assimilate” alle cessioni in senso stretto, cioè con trasferimento della proprietà, oltre che a titolo oneroso. Quindi, tali vendite, al pari delle locazioni con clausola di trasferimento della proprietà vincolante per entrambe le parti, di cui al successivo n. 2) del citato comma 2 dell’art. 2, integrano il presupposto oggettivo d’imposta anche se, in deroga alle regole generali della disciplina civilistica, non soddisfano tutti i requisiti delle cessioni.
Dal punto di vista temporale, l’art. 6, comma 1, D.P.R. n. 633/1972 dispone altresì che le operazioni in esame, a differenza delle altre ipotesi i cui effetti traslativi si producono posteriormente, si considerano effettuate in base ai parametri “ordinari”, vale a dire – per le
cessioni di beni mobili – nel momento della consegna o della spedizione.
Secondo i Giudici di legittimità, il rimborso dell’eccedenza dell’imposta detraibile spetta in quanto “nel caso di contratto di vendita con riserva di proprietà che riguardi […] beni mobili, in virtù dell’anticipazione ai fini fiscali dell’effetto traslativo, l’imposta diviene esigibile sull’intero corrispettivo nel momento della consegna o spedizione dei beni ed è versata con le modalità e nei termini stabiliti nel D.P.R. n. 633 del 1972”.
Con tale pronuncia, i Giudici di Piazza Cavour stabiliscono dunque che, ai fini IVA, l'acquisto di beni mobili ammortizzabili con riserva della proprietà non preclude il diritto di rimborso della relativa imposta. Agli effetti dell'IVA, infatti, la sospensione civilistica del trasferimento della proprietà a garanzia del pagamento integrale del prezzo non opera e, dato che per le vendite di beni mobili con riserva della proprietà l'imposta diventa esigibile e, quindi, detraibile nel momento della consegna o della spedizione, è in tale momento che sorge il diritto di rimborso.
Alla luce del suesposto principio, i Giudici di legittimità, confermando le decisioni rese in primo grado e in appello, hanno escluso pertanto che i beni acquistati diventassero fiscalmente ammortizzabili solo nel momento in cui si fosse verificato il passaggio della proprietà, con conseguente diniego del rimborso chiesto in un momento anteriore.
La Suprema Corte, in virtù di quanto disposto dall’art. 30, D.P.R. n. 633/1972, ha ritenuto - correttamente, a parere di chi scrive - che, anche per il contratto di vendita di beni mobili con riserva di proprietà, l’imposta diventa esigibile sull’intero corrispettivo nel momento della consegna ed è versata secondo le regole generali che caratterizzano le operazioni soggette a IVA.
In definitiva, se l’IVA diventa esigibile nel momento della consegna, è a partire da tale momento che la stessa, essendo detraibile ai sensi dell’art. 19, comma 1, D.P.R. 633/1972, è anche rimborsabile.

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ILLEGITTIMI GLI ATTI SOTTOSCRITTI DA "FALSI" DIRIGENTI

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners – Studio Legale Tributario, da IPSOA Quotidiano, 29 aprile 2013

Sono illegittimi gli accertamenti e gli altri atti impositivi sottoscritti da dirigenti la cui delibera di nomina è priva di effetti. È illegittima la cartella di pagamento sottoscritta da personale privo della qualifica di dirigente a seguito di sospensione della delibera di nomina. È questo il principio sancito dalla Commissione Tributaria Provinciale di Messina con sentenza n. 128/1/13, depositata lo scorso 8 febbraio, la quale ha accolto il ricorso presentato dal contribuente avverso una cartella di pagamento, dichiarandone l’inesistenza poiché la stessa risultava sottoscritta da un soggetto il cui provvedimento di nomina dirigenziale era stato dichiarato privo di effetti.
Nel caso di specie, il Giudice del lavoro aveva sospeso infatti la nomina a dirigente del soggetto che aveva sottoscritto l’atto impugnato con ben due provvedimenti, ritenendo che il conferimento dell’incarico a funzioni dirigenziali fosse avvenuto in violazione delle procedure concorsuali previste dalle legge.
Secondo i Giudici del merito, l’Amministrazione finanziaria avrebbe potuto anche ricorrere all’istituto della prorogatio dei poteri (ovvero rendere validi gli atti di funzionari effettivamente, anche se illegittimamente, investiti dall’ufficio), ma se ciò si protrae oltre i quarantacinque giorni, in virtù di quanto disposto dalla legge n. 444 del 1994, l’organo amministrativo decade e, conseguentemente, tutti gli atti adottati dall’organo decaduto sono nulli così come sono nulli gli atti emanati nel periodo di proroga.
Con la pronuncia in commento, la Commissione tributaria provinciale di Messina afferma tout court l’illegittimità della cartella di pagamento sottoscritta da un dirigente la cui delibera di nomina sia stata sospesa e, conseguentemente, privata di effettiex tunc.
La pronuncia si ricollega alla nota questione dei circa 800 dirigenti dell’Agenzia delle Entrate nominati “illegittimamente” (ovvero senza regolare concorso e senza tenere in alcuna considerazione le graduatorie di precedenti concorsi), come sancito dal TAR del Lazio con
sentenza del 1° agosto 2011, n. 6884, che annullava la delibera del Comitato di gestione dell’Agenzia delle Entrate. Tale delibera aveva modificato l’art. 24, comma 2, del Regolamento di amministrazione, introducendo la possibilità di coprire quasi tutti i posti vacanti della dotazione organica dirigenziale. Al fine di evitare una paralisi del sistema fiscale in una fase di crisi economica, il Consiglio di Stato interveniva sospendendo la pronuncia del TAR e congelandone temporaneamente gli effetti.
Tuttavia ora tale rimedio risulta essere insufficiente.
In virtù di quanto stabilito dai Giudici siciliani, consegue infatti che gli atti sottoscritti dai circa 800 dirigenti dell’Agenzia delle Entrate nominati senza concorso rischiano di essere dichiarati illegittimi, almeno sino a quando il Consiglio di Stato non si sarà pronunciato.
Le conseguenze potrebbero essere gravissime sotto il profilo del danno erariale, ma positive per tutti i contribuenti raggiunti da atti impositivi sottoscritti da personale privo della qualifica di dirigente: tali atti, infatti, sarebbero qualificati completamente illegittimi.
Tuttavia, vista la difficoltà per il contribuente a reperire la lista dei circa 800 dirigenti “decaduti” su un totale di 1.143 dirigenti dell’Agenzia delle Entrate, viene spontaneo chiedersi: come può il contribuente sapere se il direttore provinciale o il soggetto che ha firmato l’atto o rilasciato la delega rientra tra quegli individui che, secondo quanto ritenuto dal TAR del Lazio, ricoprono un incarico con funzioni dirigenziali “illegittimo”?
Una strada percorribile potrebbe essere quella di eccepire, in via generale, l’eventuale vizio di sottoscrizione, sia del capo dell’ufficio (nell’attuale sistema, tale figura coincide con il direttore provinciale) sia del funzionario da questi delegato, nonostante l’oggettiva impossibilità circa il reperimento della predetta lista. Così operando, infatti, l’onere della prova in merito alla legittimazione attiva del soggetto sottoscrittore dell’atto impugnato verrebbe traslato in capo all’Amministrazione finanziaria resistente in giudizio e, in caso di mancato riscontro all’eccezione formulata, la medesima eccezione troverebbe accoglimento con conseguenziale annullamento dell’atto oggetto di impugnazione.

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LEGITTIMO L'AVVISO DI ACCERTAMENTO NOTIFICATO ALL'ENTE CHE HA CESSATO L'ATTIVITA'

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners – Studio Legale Tributario, da IPSOA Quotidiano, 22 aprile 2013

L’avviso di accertamento notificato all’ente in fase di liquidazione è pienamente legittimo, in quanto l’estinzione della persona giuridica consegue solo alla cancellazione della stessa dal Registro delle persone giuridiche. È questo il principio sancito dalla Commissione tributaria provinciale di Brindisi con sentenza n. 71 del 13 marzo 2013, conformemente al prevalente orientamento della giurisprudenza tributaria di legittimità (cfr. Cass., sentenza 11 maggio 2012, n. 7327).
Con la pronuncia in commento, la CTP di Brindisi afferma tout court che la cessazione dell’attività non è motivo di estinzione dell’ente e, in ogni caso, né essa né la deliberazione di scioglimento o l’accertamento dell’estinzione valgono a determinare la fine della persona
giuridica, che si verifica solo allorquando, terminata la procedura di liquidazione, l’ente viene cancellato dal Registro delle persone giuridiche.
Nel caso di specie, il ricorrente (un’associazione riconosciuta) eccepiva la nullità di una cartella di pagamento, in quanto emessa a seguito di più avvisi di accertamento notificati quando l’ente era da considerarsi - a suo dire - già estinto per intervenuta cessazione dell’attività.
Secondo i Giudici del merito, le associazioni, le fondazioni e le altre istituzioni di carattere privato acquistano la personalità giuridica mediante il riconoscimento determinato dall’iscrizione nel Registro delle persone giuridiche, ai sensi dell’art. 1, D.P.R. n. 361/2000.
In attuazione di tale principio, i provvedimenti che ordinano lo scioglimento o accertano l’estinzione dell’ente devono essere iscritti nel Registro delle persone giuridiche. Ciò, in considerazione di quanto disposto dall’art. 4, D.P.R. n. 361/2000, secondo cui “nel registro devono altresì essere iscritti […] i provvedimenti che ordinano lo scioglimento o accertano l'estinzione, il cognome e nome dei liquidatori e tutti gli altri atti e fatti la cui iscrizione è espressamente prevista da norme di legge o di regolamento”.
La CTP di Brindisi, in virtù di quanto detto innanzi, stabilisce pertanto che né la cessazione dell’attività né la deliberazione di scioglimento o l’accertamento dell’estinzione valgono a determinare la fine della persona giuridica. L’estinzione si verifica solo quando, chiusa la procedura di liquidazione, l’ente viene cancellato dal Registro delle persone giuridiche.
Tra l’altro, i Giudici rilevano che, argomentando a contrariis, si giungerebbe alla conclusione che è nullo il ricorso proposto da ente (giuridicamente) inesistente, rappresentato e difeso da legale munito di mandato (giuridicamente) inesistente, in quanto conferito da persona fisica qualificatasi rappresentante legale di un’associazione (giuridicamente) inesistente.
La sentenza dei Giudici brindisini si innesta nel solco tracciato dalla giurisprudenza di legittimità con le ormai celebri sentenze n. 4061, n. 4062 e n. 4063 del 2010 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, da cui giurisprudenza unanime ha ricavato successivamente il noto principio secondo cui la cancellazione della società comporta l’estinzione di ogni rapporto giuridico riferibile all’ente.
Ma non solo. La pronuncia consolida il filone giurisprudenziale inaugurato dalla Corte di Cassazione con sentenza del 11 maggio 2012, n. 7327, secondo cui “nelle ipotesi in cui una società si estingue (solo a seguito di cancellazione dal Registro delle imprese), il processo tributario, da quest'ultima instaurato ed avente ad oggetto l'impugnazione di un avviso di accertamento emesso nei confronti di tale società, non può proseguire nei confronti di quest'ultima perché non più esistente”.

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CON RICORSO INAMMISSIBILE, ISCRIZIONE A RUOLO SOLO DOPO L'ESAURIMENTO DELLA LITE

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners – Studio Legale Tributario, da IPSOA Quotidiano, 5 aprile 2013

Il termine di decadenza per l’iscrizione di somme a ruolo decorre da quando l’accertamento è divenuto definitivo, ovvero, se è stato proposto ricorso, da quando il processo si è esaurito. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza del 27 marzo 2013, n. 7690, conformemente al prevalente orientamento della giurisprudenza tributaria di legittimità (Cass. n. 105/2008; Cass. n. 23173/2005; Cass. n. 11804/2006; Cass. n. 11222/2002).
Con la pronuncia in commento, i Giudici di Piazza Cavour, intervenendo sulla questione della decorrenza del termine, previsto a pena di decadenza, per l’iscrizione di somme a ruolo, hanno affermato che tale termine – quando l’accertamento sia stato impugnato, ma il ricorso sia dichiarato inammissibile – decorre dalla “definitività” della pronuncia di inammissibilità dello stesso.
Ciò in considerazione di quanto disposto dall’art. 17 del D.P.R. 602/1973 (norma che, allo stato attuale, corrisponde all’art. 25 del D.P.R. 602/1973), secondo cui “Le somme dovute dai contribuenti sono iscritte in ruoli resi esecutivi a pena di decadenza: ….. c) entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello in cui l’accertamento è divenuto definitivo, per le somme dovute in base agli accertamenti dell’ufficio”.
La Suprema Corte afferma tout court che, in ipotesi di avvenuta proposizione di ricorso, deve ritenersi che l’accertamento non possa considerarsi definitivo sino a quando vi sia la pendenza della lite ed il giudizio non si sia concluso con una esplicita pronuncia, sia pure di inammissibilità ovvero di improcedibilità.
Quindi un avviso di accertamento impugnato in modo inammissibile o improcedibile non potrebbe considerarsi definitivo fino a che la lite che lo concerne, sia pure irregolarmente instaurata, non si sia chiusa. In altri termini, secondo i Giudici di legittimità, qualora il ricorso proposto dal contribuente sia dichiarato inammissibile, la data dalla quale deve considerarsi definitivo il provvedimento impugnato, con conseguente decorrenza del termine per l’iscrizione a ruolo, è quella in cui si chiude il giudizio e non quella antecedente nella quale il ricorso diviene inammissibile.
La soluzione adottata dalla Suprema Corte trova il proprio fondamento giuridico nel concetto di litispendenza della lite ed esclude che la pronuncia di inammissibilità del ricorso accerti una definitività già verificatasi, facendo retroagire così il termine di decadenza. L’atto impugnato non può dirsi pertanto definitivo finché il giudizio non si sia concluso con una esplicita pronuncia.
La sentenza della Corte di Cassazione consolida quel filone giurisprudenziale (Cass. n. 105/2008; Cass. n. 23173/2005; Cass. n. 11804/2006; Cass. n. 11222/2002), secondo cui la pendenza della lite deve essere intesa in senso formale e non viene assolutamente esclusa da una successiva pronuncia di inammissibilità o improcedibilità: infatti, perché l’accertamento sia considerato definitivo, ove lo stesso sia stato impugnato, occorre l’esaurimento della lite.
Alla luce dei suesposti principi, la cartella di pagamento deve essere notificata, a pena di decadenza, ex art. 25 del D.P.R. 602/1973, entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello in cui l’accertamento è divenuto definitivo.
Tale momento, laddove sia stato instaurato il contenzioso, coinciderà con:
a) il decorso dei termini per l’appello della sentenza della Commissione Tributaria Provinciale;
b) il decorso dei termini per il ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale;
c) il deposito della sentenza della Corte di Cassazione, salvo il caso della sentenza di cassazione con rinvio.

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L'OBBLIGATORIETA' DEL PREVENTIVO CONTRADDITTORIO E' RETROATTIVA

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners – Studio Legale Tributario, da IPSOA Quotidiano, 8 marzo 2013

Contraddittorio preventivo obbligatorio anche per il “vecchio” redditometro. È questo il principio sancito dalla Commissione Tributaria Provinciale di Torino con sentenza n. 3/4/13, conformemente al prevalente orientamento della giurisprudenza tributaria di legittimità.
Con la pronuncia in commento, la Commissione Tributaria Provinciale di Torino, intervenendo sulla nota questione della retroattività dell’obbligo del preventivo contraddittorio in caso di accertamento sintetico da parte dell’Ufficio, ha stabilito che anche per il cosiddetto “vecchio redditometro” trova applicazione la regola prevista dal nuovo art. 38, comma 7, del D.P.R. n. 600/1973 (come modificato dall’art. 22, D.L. n. 78/2010).
Secondo il Collegio torinese l’applicazione della procedura di accertamento standardizzato, mediante l’utilizzo dei parametri o degli studi di settore, costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità non è ex lege determinata in relazione agli standard in sé considerati, ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’avviso di accertamento.
La pronuncia ha ripreso i principi sanciti dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 26635 del 18 dicembre 2009 (cfr. A.Marcheselli, “Clicca qui”, il Quotidiano IPSOA del 5 gennaio 2010), a tenore della quale gli studi di settore costituiscono una presunzione semplice che sostanzialmente diviene qualificata e, quindi, utilizzabile in sede accertativa, soltanto in esito al contradditorio tra Ufficio e contribuente.
Quindi, in analogia con quanto stabilito per gli studi di settore, lo strumento presuntivo (rectius, redditometro) diventa anch’esso qualificato e, quindi, utilizzabile ai fini accertativi, soltanto in esito alle risultanze del contraddittorio tra le parti.
Solo il preventivo contraddittorio consente infatti di vagliare l’attendibilità della ricostruzione sintetica del reddito operata dall’Ufficio e di appurare quali spese medie Istat possano, con sufficiente ragionevolezza, essere imputate al contribuente.
Secondo la CTP di Torino, sussiste pertanto la necessità di esperire il preventivo contraddittorio per adeguare l’elaborazione statistica degli standard considerati dal D.M. del 1992 alla concreta realtà economica del contribuente. In tale prospettiva, come chiarito dalla Commissione piemontese, il nuovo art. 38, comma 7, del D.P.R. n. 600/1973, che disciplina l’accertamento sintetico, dovrà trovare applicazione anche con riferimento agli accertamenti anteriori all’anno di imposta 2009, in coerenza con gli obblighi di lealtà, trasparenza e buona fede sanciti dallo Statuto dei diritti del contribuente.
Da ultimo, richiamando la sentenza della CTR Puglia 27 gennaio 2012, n. 9, il Collegio torinese ha chiarito che devono considerarsi nulli tutti gli accertamenti sintetici notificati dall’Ufficio senza previo esperimento della procedura di contraddittorio con il contribuente.
La sentenza del Collegio torinese si pone tuttavia in contrasto con il consolidato trend giurisprudenziale della Corte Cassazione, formatosi antecedentemente alla modifica dell’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973, secondo il quale l’emissione di accertamento non richiederebbe una preventiva contestazione del reddito determinato sinteticamente. Secondo il richiamato orientamento, la mancata instaurazione del contraddittorio con il contribuente nella fase istruttoria non giustifica l’annullamento dell’accertamento, ben potendo il contribuente dimostrare l’inferiorità del proprio reddito effettivo rispetto a quello accertato dall’Amministrazione finanziaria in sede di
impugnazione dell’atto (Cass. n. 7485/2010; Cass. n. 27069/2006; Cass. n. 9198/1991).

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EQUITALIA PUO' NOTIFICARE DIRETTAMENTE LA CARTELLA DI PAGAMENTO AL CONTRIBUENTE

Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners – Studio Legale Tributario, da IPSOA Quotidiano,7 febbraio 2013

Legittima la notifica “diretta” da parte del concessionario della riscossione. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione che, intervenendo sulla nota questione della notifica “diretta” da parte del concessionario della riscossione, ha dichiarato che lo stesso può notificare direttamente, tramite raccomandata con ricevuta di ritorno, la cartella di pagamento, senza che sia necessario alcun ulteriore adempimento da parte dell’agente postale, se non quello di ottenere la sottoscrizione del registro della corrispondenza e dell’avviso di ricevimento da parte del soggetto legittimato a ricevere l’atto.
È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza del 17 gennaio 2013, n. 1091, che si pone in forte contrasto con l’orientamento prevalente della giurisprudenza tributaria di merito (CTP Campobasso 11 giugno 2012, n. 133; CTP Lecce 29 dicembre 2010, n. 533; CTP Pescara 3 novembre 2010, n. 743; CTP Lecce 16 novembre 2009, n. 909; CTP Genova 12 giugno 2008, n. 125).
Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte, intervenendo sulla nota questione della notifica “diretta” da parte del concessionario della riscossione, ha dichiarato che lo stesso può notificare direttamente, tramite raccomandata con ricevuta di ritorno, la cartella di pagamento, senza che sia necessario alcun ulteriore adempimento da parte dell’agente postale, se non quello di ottenere la sottoscrizione del registro della corrispondenza e dell’avviso di ricevimento da parte del soggetto legittimato a ricevere l’atto. Ciò in considerazione di quanto disposto dall’art. 26, D.P.R. n. 602/1973, secondo cui “la notifica può essere eseguita anche mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento, […] e la notifica si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto da una delle persone legittimate a ricevere l’atto”. In tale ipotesi, pertanto, la legge non prevede la redazione di alcuna relata di notifica, come risulta da quanto disposto dal citato art. 26, secondo cui “l’esattore è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso di ricevimento ed ha l’obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell’amministrazione”.
I Giudici di legittimità hanno affermato altresì che l’eventuale mancata indicazione nell’avviso di ricevimento delle generalità della persona a cui è stata consegnata la cartella e l’eventuale illeggibilità della sottoscrizione del medesimo avviso non pregiudicano in alcun modo la notificazione, poiché, da un lato, detta indicazione di dati anagrafici non è richiesta da alcuna disposizione e, dall’altro, la relazione tra il soggetto cui l’atto è destinato e quello che lo riceve fisicamente costituisce oggetto di un preliminare accertamento di competenza dell’Ufficio postale. D’altronde, l’avviso di ricevimento è assistito dall’efficacia probatoria di cui all’art. 2700 c.c., avendo natura di atto pubblico (Cass. sent. n. 11708/2011).
La pronuncia pare, purtroppo, consolidare il filone giurisprudenziale inaugurato dall’ordinanza del 6 luglio 2010, n. 15948, della Corte di Cassazione, secondo cui il concessionario della riscossione può procedere direttamente alla notifica della cartella di pagamento, senza doversi avvalere di uno specifico agente notificatore. Inoltre la notifica tramite raccomandata con ricevuta di ritorno, espressamente prevista dal citato art. 26, non prevedrebbe la necessità né della relata di notifica né di alcun ulteriore adempimento da parte dell’agente postale, se non quello di ottenere la sottoscrizione del registro della corrispondenza e dell’avviso di ricevimento da parte del soggetto legittimato a ricevere l’atto.
La pronuncia della Suprema Corte stride irrimediabilmente con il prevalente orientamento della giurisprudenza tributaria di merito (CTP Campobasso 11 giugno 2012, n. 133; CTP Lecce 29 dicembre 2010, n. 533; CTP Pescara 3 novembre 2010, n. 743; CTP Lecce 16 novembre 2009, n. 909; CTP Genova 12 giugno 2008, n. 125), che, con il conforto della quasi unanime dottrina, nega tout court la legittimità della notifica “diretta” da parte del concessionario della riscossione.
Secondo i Giudici di merito, infatti, l’art. 26 D.P.R. n. 602/1973 disciplina esclusivamente la modalità esecutiva della notifica. Secondo l’interpretazione della giurisprudenza di merito, dunque, la notifica resterebbe sempre affidata all’organo preposto dalla legge alla notificazione (ovvero, messo notificatore nominato dal concessionario ex art. 45 D.Lgs. n. 112/99, messo comunale o agente della polizia municipale). Ciò, in sintonia con il disposto dell’art. 60 D.P.R. n. 600/1973, il quale richiama espressamente gli artt. 137 c.p.c. e ss., che disciplinano la notificazione come atto proprio ed esclusivo dell'ufficiale giudiziario, anche quando si avvale del servizio postale.

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